Santoro copia Silvio sulla via dell’«amore»

Che ci abbia riflettuto è certo. Un conoscitore delle tecniche di comunicazione di massa come Michele Santoro è indubbio che, scegliendo di intitolare «Comizi d’amore» il suo nuovo programma, abbia intravisto la possibilità che quel titolo richiamasse, dal fronte opposto, il partito dell’amore che Silvio Berlusconi lanciò dal predellino nel dicembre 2009. Perché va bene Pasolini e il suo film inchiesta sull’Italia del sesso e della morale degli anni Sessanta, cui si ispira il teletribuno. Ma gli italiani, si sa, sono ignoranti, lo certificò Pasolini allora e lo suppone la sinistra ogni volta che accusa Berlusconi di vincere le elezioni perché teleimbonisce il popolo bue. E infatti ieri bastava fare un giro sul web per trovare dissacranti commenti su «Michele Chi?», «ridotto a copiare Cicciolina e Berlusconi».
In quel 2009 del «uniamoci noi persone di buona volontà che credono che l’amore possa vincere l’invidia e l’odio» pronunciato dal premier, proprio Santoro, in Travagliata e sinistrorsa compagnia, era stato in prima fila a ironizzare sulla trovata, e il senso era: proprio da lui, che se la parole fossero manganelli avrebbe già lasciato in un lago di sangue mezzo Paese dall’opposizione alla magistratura. E giù a pesare ogni dichiarazione all’urlo di «se vi pare amore questo». Ora lo stesso esercizio si potrebbe fare con Santoro, se non altro annotando che l’atto di megalomania di mettersi nei panni di Pasolini richiederebbe l’umiltà, almeno, di dar voce per indagare, invece di dar (sulla) voce per dimostrare una tesi precostituita. Ma c’è un esercizio più utile: qualcuno dica a Santoro che è tutto inutile. Il centrosinistra ci prova da vent’anni, a combattere Berlusconi con le sue stesse armi. Invano.
Quando scese in campo, nel 1994, con il videomessaggio davanti alla libreria, la sinistra si sbellicò disdegnandolo. Quando poi, perse le elezioni, smisero di ridere, presero a criticare il metodo antidemocratico di evitare le domande dei giornalisti. Sedici anni dopo, ecco Gianfranco Fini passato all’opposizione contro Re Silvio, usare lo stesso mezzo per difendersi dalle accuse sulla casa di Montecarlo. Di peggio ha fatto il centrosinistra. Col solo risultato di farsi stroncare dai suoi elettori perché «allora l’originale è meglio della copia». Era pure uscito un paio d’anni fa uno speranzoso libretto di due compagni, Michele Dalai e Gennaro Migliore: «È facile smettere di perdere se sai come farlo». Diceva che trovarsi alle prese col Cav, per la sinistra era stato un po’ come essere a una festa (vabbè, è una metafora), e all’improvviso veder arrivare un Uomo col Megafono, ospite indesiderato e molesto: «I padroni di casa lo hanno prima sottovalutato, poi blandito, e alla fine hanno provato a contestarlo con i suoi stessi metodi e toni, senza però sapere come amplificarli a dovere». Nell’attesa di riprendersi il megafono, un tempo strumento popolare e di sinistra, i leader del fu Pds poi Ds oggi Pd si sono prodotti in una carrellata di imitazioni che nemmeno Guzzanti e Crozza. «Sarò un presidente operaio» s’inventò Berlusconi un giorno di gennaio dell’anno del Signore e delle elezioni 2001. Tutti a prenderlo in giro, epica la campagna di falsi manifesti elettorali sul web, Franco Grillini il presidente di Arcigay che provocava: «Cavaliere, sia un presidente gay». Poi però ecco le copie, indimenticabile il Dario Franceschini che salì su un treno con lo stesso cappello da ferroviere indossato da Berlusconi in versione, appunto, «presidente ferroviere», e più tardi ecco la manica di camicia arrotolata sulle braccia di un Bersani alla bocciofila, evoluzione pop del riformismo radical chic. E così ecco a poco a poco crollare gli argini della superiorità culturale della sinistra, a partire dal linguaggio, ché vallo a contrastare il Cav che ti svecchia il politichese con la metafora calcistica, e infatti l’hanno seguito come dietro al pallone.
Non è solo questione di immagini, Pier Luigi Bersani che a una festa del Pd di Reggio nel 2009 si esibisce in «una carezza in un pugno» con un’interpretazione da far rimpiangere Apicella, o il Pd che, Uòlter Veltroni docet, dopo aver criticato il Cav tutto fumo niente arrosto abbandona i ragnatelosi congressi della sinistra in colbacco style per i lustrini all’americana, musica e scenografie e strette di mano dal palco. È anche questione di sostanza. Prodi che nel 2006 sussurra timidamente di voler abbassare l’Ici è la brutta copia di Berlusconi che, al termine del faccia a faccia televisivo preelettorale, con decisione ne annuncia l’abolizione. Il Veltroni ma-anchista che nel 2007 sogna, he has a dream, di cambiare l’Italia in dieci mosse, le mosse, dal federalismo alla sicurezza, sembra averle copiate dall’avversario, e infatti becca critiche da sinistra prima che sberleffi da destra.

Il Nichi Vendola che predica «basta inseguire Berlusconi», è poco credibile se poi come Berlusconi si candida capolista alle Europee pur sapendo che a Bruxelles manderà il secondo in lista. C’è poi la reazione di Penati e dintorni alle inchieste giudiziarie di questi giorni, «è la macchina del fango» ha detto a caldo l’ex braccio destro di Bersani indagato. Ma questa è un’altra storia.

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