«Sbaglia chi ci accusa, io cacciai i pedofili»

«Vorrei soltanto far sapere che la colpa non è sempre di noi vescovi e che è davvero ingiusto generalizzare...». La voce di monsignor Girolamo Grillo, vescovo emerito di Civitavecchia e Tarquinia, è rotta dall’emozione. C’è sofferenza nelle sue parole. «Ho letto l’intervista al giudice Forno sul Giornale – dice – e la mia esperienza non è affatto quella descritta in quella pagina».
Che cosa contesta?
«La generalizzazione, l’immagine di una gerarchia ecclesiastica insensibile e preoccupata soltanto del buon nome della Chiesa. L’immagine di vescovi che non fanno nulla per evitare che questi abominevoli crimini si ripetano...».
Qual è la sua esperienza?
«Comincerei a descrivere qualcosa che mi è accaduto quando ero giovane prete. Alcuni seminaristi mi parlarono di abusi. Li invitai a raccontare immediatamente tutto al rettore e poi al vescovo. Inizialmente il vescovo prese tempo, ma la cosa arrivò a Roma e furono presi provvedimenti drastici e risolutivi».
E da vescovo, le sono capitati casi del genere?
«Purtroppo ho avuto delle segnalazioni durante i quasi trent’anni del mio episcopato...».
Come si è comportato?
«Da me sono venute persone che sapevano, che avevano raccolto le confidenze delle vittime o delle loro famiglie. Ma mai, in nessun caso, queste persone hanno accettato di firmare una testimonianza e, lasciandomela, di permettermi di intervenire nelle sedi opportune. Mai mi è stato fatto il nome di una delle persone che avevano subito abusi».
Ha mai incontrato le vittime o le loro famiglie?
«Da me non è mai venuta nessuna vittima, e nemmeno un suo familiare. Nessuno che mi abbia raccontato ciò che era accaduto assumendosene la responsabilità. Se fosse successo, avrei immediatamente invitato innanzitutto a denunciare la cosa alla magistratura».
Forno dice che i vescovi non denunciano.
«Ma si dimentica che la prassi ormai invalsa da anni è quella di invitare le vittime dell’abuso a rivolgersi alla polizia e alla magistratura. La Chiesa istruisce un suo processo, che è assolutamente indipendente da quello dell’autorità civile, ma invita chi ha subito la violenza a denunciare, perché la giustizia faccia il suo corso. Dunque, anche se non sono i vescovi direttamente a denunciare, invitano le vittime a farlo».
Lei ha chiesto di parlare con le vittime o le loro famiglie?
«Io ho pregato le persone che sono venute a parlarmi di questi episodi di mettermi in contatto con le vittime, per poterle incontrare, ascoltarle e agire. Questo però non è mai accaduto. Nel mio caso, purtroppo, non è mai accaduto. Non sono stato mai messo in contatto diretto con una vittima o almeno con un suo familiare. Non ho mai potuto manifestare loro la mia vicinanza e la mia sofferenza. E quando ho chiesto a chi mi parlava per conto terzi di assumersene la responsabilità firmandomi una dichiarazione, non l’hanno mai voluto fare. Talvolta hanno persino miminizzato i loro precedenti racconti».
Che cosa ha fatto allora lei? Ha lasciato correre?
«Nient’affatto. Ho cercato di assumere informazioni, e soprattutto ho tenuto d’occhio il sospetto. Poi l’ho convocato, gli ho detto che c’era chi lo accusava, lui si è difeso dicendo che non c’era niente di vero nelle accuse. Io però non avevo nulla di concreto da mettergli di fronte».
Tutto è rimasto allora come prima?
«Assolutamente no. In certi casi ho cacciato i sospetti, li ho allontanati dalla diocesi, anche rischiando ritorsioni. Ho sofferto molto.

Ma non potevo fare di più. Perché per accusare formalmente qualcuno ci vuole qualcun altro che si assuma la responsabilità di quanto dice e che racconti l’abuso subito. O qualcuno che almeno testimoni di aver riscontrato l’abuso».

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