Se Barack invade la Tv

Trenta minuti sui sette più grandi network del Paese sono serviti al più banale degli scopi: chiedere di votare lui, Barack Obama, senatore nero dell’Illinois con scarsa esperienza politica, il 4 novembre, fra tre giorni, e di eleggerlo presidente degli Stati Uniti. Se Obama fosse veramente sicuro di avere la vittoria in mano, come pure i sondaggi prevalentemente gli attribuiscono, forse tanto spreco di denaro e di immagine, a rischio di esporsi a facili attacchi dell’avversario repubblicano, John McCain, non lo avrebbe speso. Il filmato naturalmente ha avuto un grande successo, perché stupirsi. Ha registrato uno share di quasi il 30% anche perché qualcosa che va in onda pochi giorni prima del voto all’ora del prime time, viene regolarmente visto da un numero alto di persone. Inutile fare il paragone con la percentuale che sfiorò l’unico altro candidato che abbia osato spendere tanto soldi, l’indipendente Ross Perot, nel ’92, perché Ross Perot non è mai arrivato a essere un candidato credibile.
Il filmato, visto e rivisto con calma, contiene certamente gli elementi di qualità che tutti si sono affrettati, media italiani e americani, a sottolineare. Certo, è fatto benissimo, girato da un ottimo regista e riesce a essere non solo un «inf-O-mercial», ovvero una via di mezzo tra informazione e pubblicità, dove la «o» maiuscola è quella di Obama, come i realizzatori hanno amato chiamarlo. È piuttosto un info-teinment, una forma anche abile di intrattenimento che manda messaggi neanche tanto subliminali. Interessante è anche notare che nelle musiche scelte c’è una delle canzoni più patriottiche degli americani, certamente in qualche contrasto con il programma e la campagna di Barack Obama, ovvero America the Beautiful.
Com’è Barack Obama in questo filmato così sapientemente realizzato? È molto moderato, svelando così dove vanno le sue paure e quelle dei suoi consiglieri. È l’elettorato bianco che teme ghetti neri, è l’elettorato di classe media che in realtà teme di essere tagliato fuori perché non abbastanza povero dal programma di aumento e diminuzione delle tasse confusamente varato dal candidato democratico. Il quale rispolvera temi cari a Bill Clinton più che a John Kennedy, e cita gli anni d’oro del presidente che non ama e che non lo ama, compresi 22 milioni di nuovi posti di lavoro creati in quegli otto anni dal ’92 al 2000. Peccato che Obama dimentichi di ricordare che quei 22 milioni di posti lavoro vennero subito dopo 10 milioni di licenziamenti e che Clinton ha fatto passare l’America dall’impiego fisso con la garanzia delle Unions, i sindacati, all’impiego variabile che si sposta e che può essere anche perso, e proprio per questo ha raggiunto i 22 milioni di lavoro, avendo prima fatto fuori le Unions.
Proprio nella parte economica la faccia di Obama è meno convincente e il vestito grigio sembra più incolore. Inoltre, a ben guardare, anche se John McCain non viene mai nominato si capisce bene che il democratico ne teme la figura di politico d’eccellenza e di antica professione. Alla fine che cos’è che rimane più impresso? Rimane impressa quella grande quantità di grano dorato con la canzone patriottica, che qualunque candidato di qualunque partito in qualunque tempo avrebbe voluto fare. È un mega spot soft, morbido, per convincere che nessuno deve avere paura del nero Obama. Ma se invece a far paura fosse l’Obama che ha speso 20 milioni di dollari per uno spot? Se fosse l’Obama che ha fatto per pochi anni il senatore e prima non faceva politica?
Un’ultima annotazione. In America per fortuna non c’è la par condicio.

In America un candidato che si rivolge ai poveri dicendo che il Paese è in crisi e che lui lo porterà fuori dalla crisi può sprecare una montagna di dollari occupando sette televisioni senza che nessuno, ancora una volta per fortuna, gridi allo scandalo e alla manomissione della volontà dell’elettore. Provate a pensare alla stessa cosa qui da noi. Provate a immaginare le vesti stracciate di tutti coloro che invece hanno salutato con soddisfazione la performance del candidato nero.

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