Se la birra diventa un’opera d’arte

Anche se pochissimi lo ammetteranno - e di questi, pochissimi molte donne (mogli, amanti o figlie che siano) diranno che la loro visione del mondo è fuorviata da «eccessiva malinconia» - è ormai un dato di fatto: design e solitudine vanno a braccetto. Anzi: sono fatti l'uno per l'altra.
A sostegno di questa invereconda affermazione possiamo portare pezze giustificative che pian piano, ma inesorabilmente, si vanno accumulando di anno in anno in riviste patinate e quotidiani, libri e film: è o non è, per esempio, l'architettura modernista californiana, con i suoi algidi, iper-razionali e amarostici interni à la Philip Marlowe (quello girato da Robert Altman e interpretato da Elliott Gould), il luogo di una certa rarefatta, umanissima solitudine, persino coniugale? È o non è «Scritto di notte» - splendido libro di memorie di Ettore Sottsass (Innsbruck 1917 - Milano 2007) - in uscita mercoledì per Adelphi - innanzitutto il verbale di una virile e ironica solitudine addolcita dalla nostalgia, sentimento, quest'ultimo, che in pratica informa molti tratti di matita dei designer contemporanei, tutti appassionati di vintage, «retrò indutriale» e quant'altro?
«Scritto di notte» è proprio un libro «intimo», per milanesi e non. Verrà presentato oggi alle 19 presso la Galleria Jannone, corso Garibaldi 125, da Gae Aulenti e Fleur Jaeggy. L'incontro sarà accompagnato da una mostra «spot» della durata di pochissime ore e allestita solo per l'occasione: su lunghi rotoli di carta, appesi in orizzontale lungo il perimetro interno della galleria, verranno esposte le celebri «foto dal finestrino» scattate da Sottsass nel corso dei suoi viaggi e da lui stesso pubblicate nell'omonima rubrica che tenne sulla rivista Domus dal luglio 2004 al febbraio 2007. Su Domus le immagini erano collocate nella pagina di sinistra, mentre sulla destra stava un laconico ed evocativo testo dello stesso Sottsass, stampato con i caratteri di una Olivetti Lettera 36. La mostra di oggi opera uno scarto ulteriore: gli stessi testi di accompagnamento saranno presentati nella loro versione manoscritta. L'idea arriva da Christoph Radl, che con Sottsass lavorò alla realizzazione di una delle principali riviste di design tra la fine degli anni Ottanta e la metà dei Novanta, quella sulle cui tattili pagine «sognavano» molti milanesi ansiosi di arredare la propria casa: «Terrazzo» (il bel catalogo della mostra che la Triennale dedicò due anni fa a questa pubblicazione, è ancora in commercio per Mondadori Electa).
Ma torniamo a «Scritto di notte». Fin dalle prime righe è un Sottsass nudo quello che si presenta agli occhi del lettore, «tutt'al più in mutande», come egli stesso scrive, constatando di possedere un corpo «fragile, esposto all'aggressione dei climi, alle unghie dell'amante, agli sputi delle folle, alle risate dei sapienti» ma, appunto per questo, in fin dei conti, un corpo da «trattar bene» (quasi un invito all'incauto lettore alla ricerca di gossip).
Sfilano in queste pagine l'infanzia di Sottsass «in mezzo alle grandi montagne» (un periodo «su cui non ho niente di speciale da raccontare», salvo poi inanellare aneddoti di corrosiva «resistenza» alla cucina materna o di gratitudine per quei maestri speciali che «mi lasciavano lo spazio perché diventasse mio quello che potevo fare mio, e per sapere quello che mai sarebbe diventato mio»); la giovinezza universitaria per la verità un po' dispersiva; la Grande Esposizione a Parigi del 1937 («Mio padre mi aveva dato pochi soldi, molto pochi poveretto, e senza sapere una parola di francese, sdraiato sulla valigia nello scompartimento di terza classe, ho viaggiato tutta la notte verso la Gare de Lyon e sono finito al quarto piano dell'Hotel Azur, due stelle...»). Poi, attraverso brevi paragrafi di leggerissima affabulazione, il lettore giunge agli eventi più conosciuti e riconoscibili della biografia di Sottsass, tutti narrati con preziosa autoironia («Nella mia esistenza tutto è sempre stato un po' vago. Qualche volta ho creduto di no ma poi è venuto fuori che ero stato vago...»): i viaggi da New York ai Caraibi, dall'India a San Francisco; le esposizioni alla Triennale; il lavoro di designer (molti ricordano «Valentine», la prima macchina da scrivere portatile in plastica rossa) e ovviamente quello editoriale; gli incontri sentimentali, a volte davvero patetici (verso la fine del libro, quando l'autore era ormai in là con gli anni), a volte, invece, memorabili.
Tra quelli memorabili, c'è questo: «Un giorno d'inverno mi telefona una ragazza e mi dice: Buon giorno. Mi chiamo Fernanda Pivano. Vorrei mettere in scena un'opera del Cinquecento, poi le spiego meglio. Mi hanno detto che lei è molto bravo a disegnare scenografie».

E Ettore, che a quel tempo era un ragazzo «arrogante, maleducato, intrattabile» a cui davano fastidio le persone troppo sicure di sè, non trovò di meglio che accettare l'invito a casa della ragazza («La casa dei suoi genitori era quanto di più insopportabile potessi immaginare»). La storia d'amore che ne seguì - naturalmente - fu una delle più sornione e divertenti che Milano possa con piacere ricordare.

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