Se il Cav vede il Senatùr, pace in vista...

Quindici anni di vertici. Telenovela a lieto fine: dalla devolution alla missione in Libia, i due leader hanno sempre ricucito ogni strappo

Se il Cav vede il Senatùr, pace in vista...

Dev’esser che una volta, la prima, il governo lo ha fatto cadere davvero, nel 1994 era quasi Natale e lui fece un brutto regalo a Silvio Berlusconi, che da lì in poi e per qualche annetto prese a chiamare Berluskaiser e epiteti così. Dev’esser per questo che Umberto Bossi, tant’è, ogni volta riesce a creare suspence. Una delle ultime grandi occasioni è stata la Pontida del giugno scorso. L’ennesima Pontida al cardiopalma, con il dubbio intestinale che il Senatùr salisse sul palco e con tono grave istruisse il sacro prato: il governo è finito, andate in guerra. E invece anche questa volta, come tutte le volte da una quindicina d’anni, l’Umberto piuttosto che scaricare il Cavaliere s’è preso i cori e financo qualche fischio dal suo popolo. E tutto perché prima c’era stato un incontro a più round sul ring di Arcore, il capo leghista a minacciare sfracelli, il padrone di casa a mediare-rassicurare-cucire fino al titolo dei quotidiani il giorno dopo: «Berlusconi convince Bossi».
Quante volte. L’Umberto scalpita, Silvio si fa insofferente, ché al rimprovero rivendicativo non s’è mai adattato. L’Umberto alza i toni: ti mando a casa a calci, ti faccio un braso così, e Silvio promette: basta saperlo prendere, vedrete. Il circo mediatico si mobilita, ogni volta il vertice è «decisivo» nelle varianti di, cruciale-definitivo-determinante. E ogni volta loro se ne escono magari coi capelli arruffati e l’ascella pezzata, però sempre con il fatidico «trovata la quadra» perché «il rapporto è solido». È successo di recente molte volte, ché il 2011, si sa, è stato ed è tuttora un anno difficilotto. C’è da perdere il conto. La cena del 7 febbraio ad Arcore che ha sancito una sorta di scambio fra riforma della giustizia e federalismo. La «tregua dell’Airbus» siglata a metà giugno fra i due leader dopo le «sberle» di amministrative e referendum, con il sì del premier alla riforma fiscale chiesta dal Carroccio e l’«e sia» del ministro a non sparare missili contro il governo. Il via libera alla manovra solo dopo un vertice a tre con Tremonti, i due ministri a tirare la coperta, il premier a cucirla. E poi gli aperitivi del lunedì a Villa San Martino e i vertici notturni a palazzo Grazioli e ogni volta in piena tempesta i colonnelli ad allargare le braccia all’urlo di: la situazione è grave e seria, sta ai capi risolverla. I capi la risolvono sempre. Come una coppia consolidata, infine. Perché all’inizio non era così. All’inizio l’Umberto era in fondo il vero amico mortale di Silvio, là dove più dell’accordo poteva il ricatto. Adesso che, pure, la Lega ha spesso i numeri per intimidire il Pdl, Bossi ripete che «la garanzia è Berlusconi», «lui non dice mai balle», come disse nel gennaio scorso smentendo di voler mandare a gambe all’aria il governo. L’ultimo cambio di marcia due giorni fa, sulla richiesta di autorizzazione a procedere per Alfonso Papa. «In galera» tuonava Bossi da un bel po’. «Le manette non vanno mai messe prima del processo» concedeva al premier ieri. Nel mezzo, fra i rissosi anni Novanta e la linea dell’abbaio ma non mordo degli ultimi anni è successo qualcosa. C’è chi, come Gilberto Oneto, insinua il dubbio di un «patto dal notaio», là dove Bossi sarebbe eterno debitore di Berlusconi perché Berlusconi avrebbe pagato i suoi debiti. Boh. Chi li conosce, i due, dice che trattasi di amicizia cementata e di doppio filo: chiunque vada a fondo trascinerà l’altro.
A volte Bossi ha vinto vincendo, come nel fatidico summit ad Arcore nel 2003, quando ottenne l’inserimento della devolution nell’agenda del governo. Altre volte ha solo fatto finta di vincere. Per esempio sulla missione in Libia. Aveva tirato molto la corda, cavalcando lo scontento nazionale pur consapevole del fatto che le regole le fa la Nato, non il governo. Alla fine però, ottenuto il ritorno d’immagine con i suoi elettori, se n’era stato di un impegno a ridurre le missioni militari, facendo sogghignare Ignazio la Russa: «Ottimo accordo, è già previsto». Su una cosa soltanto Bossi non ha mai ceduto, ed è il tentativo di ricucire con Casini.

Quando il Fli lasciò il governo e il Pdl volse lo sguardo all’Udc per rafforzare la maggioranza, Bossi storse il naso. A un tratto pareva che fosse disposto a trattare, ma fingeva soltanto. «Berlusconi non deve tentennare, Casini è uno str...» disse infine. Nessuno è ancora riuscito a fargli cambiare idea.

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