Se la sinistra sottovaluta il caos Somalia

Massimo Introvigne

L’ultimo paese che può permettersi di sottovalutare quanto sta accadendo in questi giorni in Somalia è l’Italia. Qualche mese fa sembrava che un paese senza governo e con un parlamento che si riunisce prevalentemente all’estero, a Nairobi, stesse per tornare a una parvenza di normalità. Il governo Berlusconi e la diplomazia italiana erano stati pubblicamente ringraziati dall’Organizzazione per l’unità africana, dal Dipartimento di Stato americano e persino dalla televisione araba al-Jazeera per il loro discreto ma decisivo contributo. L’Italia è il primo partner economico della Somalia, e i rapporti economici finora frenati dall’inesistenza di un governo capace di controllare il territorio trarrebbero certo profitto da un’evoluzione positiva della situazione. L’Italia è anche la prima méta europea dell’emigrazione somala, e ogni turbolenza della vita politica e religiosa della Somalia - dove sono rappresentate più o meno tutte le correnti islamiche - si ripercuote immediatamente tra gli emigrati somali in Italia.
Al Qaida, che si è da anni infiltrata in Somalia e che conta di continuare a pescare nel torbido in futuro, ha perfettamente sincronizzato il suo tentativo di impedire l’insediamento a Mogadiscio di un governo «normale» con la delicata fase di transizione politica che sta vivendo l’Italia. Premesso che nella capitale somala non esiste alcuna forza di polizia regolare in grado di mantenere l’ordine, il nostro paese ufficialmente sostiene, come gli Stati Uniti, una milizia chiamata «Alleanza somala per la restaurazione della pace e contro il terrorismo». Si tratta di una polizia non ufficiale e di cui fanno certamente parte anche elementi poco raccomandabili, ma che è appoggiata da tutti i partiti politici che hanno una qualche consistenza in Somalia con la sola eccezione degli ultra-fondamentalisti islamici. Nelle intenzioni dell’Italia e degli Stati Uniti l’Alleanza avrebbe dovuto snidare i terroristi legati ad Al Qaida e permettere il ritorno a Mogadiscio del parlamento e di un governo somalo. Qualche risultato era stato ottenuto.
Nell’ultima settimana Al Qaida e i suoi alleati - raccolti nei cosiddetti Tribunali islamici uniti - hanno trasformato la semplice resistenza ai rastrellamenti dell’Alleanza somala in una vera e propria guerriglia urbana, combattuta a Mogadiscio strada per strada e casa per casa. Oggi i Tribunali islamici uniti, grazie all’apporto di ultra-fondamentalisti affluiti da numerosi paesi stranieri, controllano l’ottanta per cento della capitale somala, che rischia di trasformarsi in una nuova Kabul del tempo dei talebani. Uno dei capi supremi di Al Qaida, l’egiziano Muhammad Fazul - principale organizzatore degli attentati dell’organizzazione di Bin Laden in Africa - si mostra apertamente per le strade di Mogadiscio insieme a numerosi altri terroristi ricercati da anni.
Il capo delle milizie dell’Alleanza somala, Muhammed Kanair Efroah, ha rivolto un appello a Stati Uniti e Italia per un immediato intervento. Certo, già il ministro Fini aveva sempre escluso interventi militari in Somalia.

Tuttavia - dalla minaccia di sanzioni economiche a chi aiuta Al Qaida al supporto logistico di azioni di paesi vicini amici dell’Occidente - l’Italia negli ultimi anni ha sempre trovato il modo di dire la sua e prevenire il peggio nel turbolento scenario somalo. Uno scenario cui invece il centrosinistra sembra tragicamente disinteressato, inconsapevole dei rischi che a Mogadiscio si preparano per l’Italia.

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