Il secondo passo indietro di Massimo

Roberto Scafuri

da Roma

Avendo assunto il comando diretto delle operazioni, il capitano Massimo D’Alema a metà pomeriggio ha scorto l’infittirsi della nebbia a tribordo. Un rapido cenno ai secondi, agli ufficiali di vascello. Per la seconda volta in poche settimane suonava la campana: ma ora l’importante era stare sull’avviso, non restare invischiati, e dare l’ordine più difficile, l’«indietro adagio». Infilarsi di poppa nella nebbia per sbucare fuori al momento giusto: un capolavoro mancato persino a Orazio Nelson.
Certo, si rischia il naufragio, lo scoglio imprevisto sotto la chiglia. La fine di un sogno. Ma per questo stavolta occorreva puntare subito: rouge ou noir, rien ne va plus. Prima che i mediatori tornassero da Palazzo Chigi, la telefonata al senatore a vita Giorgio Napolitano: «Non possiamo assistere senza reagire, qui si sta mettendo in discussione la legittimità del primo partito della maggioranza a esprimere un nome per il Quirinale. Non si può partire con una pregiudiziale del genere. Io faccio un passo indietro. Se vorrai, Giorgio, ora tocca a te. È un profilo istituzionale, il tuo, al quale non vedo come si possa dire di no, se non si vuole contraddire il “metodo Ciampi” da tutti tanto decantato...».
Il vecchio leader amendoliano, ala destra e «istituzionale» del Pci, sottolineata da una notevole somiglianza con Umberto II di Savoia, il Re di Maggio, ha accolto la telefonata del passo indietro di D’Alema quasi come il riconoscimento di un’ovvia circostanza. Se non dovevano sussistere pregiudiziali nei confronti degli ex del Pci per il Colle, se il nome del giovane D’Alema non riscuoteva il necessario consenso corale, era doveroso ripartire dal nome più autorevole di quella tradizione. Giorgio Napolitano ha perciò accettato, seppur consapevole che le circostanze nelle quali questo riconoscimento era nato lo potessero trascinare nel poco invidiabile ruolo di «agnello sacrificale» o «testa d’ariete» che dir si voglia. Consegnare alla Cdl il pallino significava esporsi a qualche rischio, ma allo stesso tempo consentiva all’Unione intera di uscire dall’angolo. Avendo anche l’alibi per poter lanciare una candidatura forte, di schieramento, appunto D’Alema, alla quarta votazione.
L’idea di sottrarsi alla stretta mortale ha preso corpo man mano, nel corso di una giornata contrassegnata dai colpi di scena. Nonostante tutti gli sforzi compiuti dall’entourage dalemiano, comprese due lunghe interviste comparse ieri mattina - la mamma del presidente ds («Mio figlio sarebbe uno giusto») e con Guido Rossi (il finanziere rosso autore della feroce battuta ai tempi di D’Alema premier: «Palazzo Chigi è l’unica merchant bank dove non si parla inglese»), la candidatura pareva non decollare. Nonostante anche un forte impegno del presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che considerava essenziale una «forte difesa» della candidatura D’Alema e invitava l’intera coalizione a sostenerla vigorosamente nel Paese per farla diventare condivisa. Con la manifestazione di Milano della Casa delle libertà il sorriso tornava sul volto teso del presidente ds. Rapido quasi quanto Cossiga nel comprendere che la strada della forte contrapposizione portava acqua al mulino e ricompattava l’Unione sul nome del «candidato unico» e «di parte».
Dire che il futuro presidente della Repubblica «non può avere il cuore che batte a sinistra», come faceva Berlusconi, veniva considerato dai dalemiani come uno «schiaffo» non tollerabile al primo partito della maggioranza. La successiva rosa fornita dalla Cdl (Amato, Dini, Marini, Monti) confermava l’intento «provocatorio» nei confronti della Quercia, per i dalemiani. Ma faceva anche comprendere, secondo più sottili interpretazioni, che forse il «partito dalemiano» annidato in frange del centrodestra cominciava a fare breccia. Sul filo delle due interpretazioni, una sospesa sull’abisso, l’altra protesa verso il Colle, D’Alema decideva di rompere ogni indugio e di sfilarsi dalla ragnatela. «Mossa del cavallo» o «acquattamento nella nebbia»: in ogni caso, un salto doppio che facesse emergere l’impossibilità di una soluzione condivisa.
Ai Ds restava il compito di scegliere un nome che lavasse l’onta e servisse la Causa. Fassino telefonava a Bertinotti: il presidente della Camera, che aveva già sentito Marini, accordava il «via libera» a qualsiasi nome che appartenesse a quella tradizione. D’altronde era stato proprio Bertinotti a far rilevare che mai il Quirinale fosse toccato a uomini «ex del Pci». A questo punto, D’Alema si trovava davanti a due possibilità e a una certezza: fare un nome che sparigliasse davvero, rischiando di essere accettato, come quello della capogruppo dei senatori ds, Anna Finocchiaro.

Oppure assurgere al rango istituzionale, con Napolitano, un nome in mattinata già bocciato da Berlusconi. Massimo optava per Napolitano. Allora: indietro adagio, e tutti pronti alla prossima campana. Quella dell’«avanti tutta!».
Roberto Scafuri

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