Segni contro tutti: «Le riforme si fanno fuori dal Parlamento»

Mario ovvero Mariotto Segni, alias mr Referendum, ma anche mr Maggioritario, ora è principalmente un canuto signore che insegna Diritto civile all’università di Sassari, città e ateneo natali dove si è laureato una cinquantina di anni fa. Eppure il suo nome e il Patto omonimo (una piccola coalizione guidata dal giurista sardo), nei complicatissimi albori degli anni ’90, sembrava contenere il presagio di una rivoluzione riformatrice in Italia.
Il destino politico di Mario Segni, in verità, è stato sempre molto ridimensionato alla prova delle urne, ma non si può dire che la scia del «segnismo» (una declinazione speciale del «referendarismo», molto diverso, anche per stile, dalla coazione a ripetere dei radicali) non abbia lasciato tracce, anzi. Il movimento referendario organizzato proprio da Segni a partire dal ’90 portò a una modifica radicale del sistema elettorale italiano, e quindi della politica. Due parole complicate che però sono diventate la norma: bipolarismo e maggioritario. «Al sistema proporzionale imperniato sui governi di coalizione fatti e disfatti dai partiti - ricorda ora Segni in un libro appena pubblicato, Niente di personale. Solo cambiare l’Italia (ed. Rubbettino, pagg. 148, euro 14) - noi contrapponemmo un modello ispirato a quello anglosassone o a quello francese, il cui connotato essenziale è il bipolarismo e la scelta diretta del governo da parte dei cittadini. Alcuni risultati positivi del nuovo corso sono evidenti e innegabili. Dal 1994 a oggi l’Italia ha visto a ogni elezione l’alternanza tra coalizioni contrapposte. Ogni volta il cambiamento è avvenuto per una scelta diretta dei cittadini. Con il maggioritario l’elettore ha quindi conquistato per la prima volta il vero diritto di scelta del governo e del suo leader». Tutto rose e fiori, in un idilliaco amarcord? Non proprio, perché nelle pagine successive Segni passa alla parte destruens, prima di augurarsi una nuova fase riformatrice. Auspici su cui Segni è tutt’altro che ottimista, da scettico sia sul Pd che sul Pdl, come anche sulla Lega. In breve, su tutti i partiti, che per un motivo o l’altro hanno interesse a opporsi alla «spinta» - come la chiama Segni - delle riforme via referendum.
Ecco la peculiarità di Mariotto Segni nella storia recente (o quasi) della nostra democrazia. Antipolitico ante litteram e lontano anni luce dal movimentismo dell’antipolitica grillineggiante, referendario ma non radicale (tanto che il partito di Pannella ha sviluppato una sorta di astio competitivo nei suoi riguardi: «Noi non la possiamo vedere» - mi disse una volta un giovane radicale un po’ brillo - abbiamo fatto una trentina di referendum, poi arriva lei, ne fa due, e diventa il leader referendario», racconta nel libro), Segni rimane convinto che il cambiamento della politica non può venire dalla politica: «Le spinte riformistiche sono sempre venute dall’esterno del Palazzo. Il ceto politico si è sempre opposto, ha frenato, ha riconquistato spazi. Il meccanismo proporzionale è quello che gli consente il maggior potere e i minori controlli. Se questa è stata costantemente la sua tendenza, non vedo quale illuminazione potrebbe fargli cambiare idea».

In effetti la battaglia di Segni pare quasi disperata, perché «la battaglia istituzionale non basta più, c’è una base di valori che va ricostruita, prima di completare l’edificio di uno Stato moderno e vitale». Alla fine però, a mr Referendum, rimane ancora un ossimoro di speranza: «Un paese irriformabile può essere riformato».

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