Un semplice sospetto basterà per schedare il Dna

Gianluigi Nuzzi

Non solo foto segnaletiche e impronte digitali. Per incastrare i delinquenti arrivano le «impronte biologiche»: saliva, capelli, peli. Dati preziosi da raccogliere in una banca dati del Dna e che varranno come prove contro gli autori di furti, rapine, stupri. L’impronta biologica varrà quindi per tutti quei reati che prevedono una pena massima superiore ai tre anni. Così il ddl approvato ieri a palazzo Chigi che introduce il prelievo coatto di campioni biologici per stabilire il Dna di chi ha compiuto i reati. Sei gli articoli per il semaforo verde a quella che si annuncia come una «mezza svolta» nelle indagini di polizia giudiziaria. Semplici le modalità e le procedure per il prelievo. L’esame verrà chiesto dal pubblico ministero e disposto dal giudice, garantito da tutte le tutele previste per le difese processuali, non sarà invasivo e potrà essere disposto con provvedimento motivato nei casi in cui il reato ipotizzato è punito con l’ergastolo o con pene superiori nel massimo a tre anni.
Un’estensione ben più ampia quindi rispetto ai casi previsti oggi, ovvero quelli di terrorismo e criminalità organizzata. Qualora la persona indagata si rifiuti il Pm dispone il prelievo coatto che deve essere comunque convalidato entro le successive 48 ore. Come il fermo di una persona disposto dalla polizia. Subito dopo i campioni prelevati dovranno essere immediatamente distrutti. Eccezione per i casi in cui si ritenga indispensabile la conservazione delle provette fino a quando la sentenza sarà passata in giudicato. Le prove di laboratorio sul Dna andranno a confluire in una banca dati centrale che verrà regolamentata secondo le disposizioni degli archivi delle impronte digitali già costituiti. A breve un altro ddl disciplinerà questa banca che raccoglierà sia i campioni di Dna rilevati sulla scena del crimine, sia quelli compiuti sulle persone.
In realtà una banca dati del Dna di oltre 15mila persone è già presente e funzionante. Un immenso archivio dei casi trattati che si trova a Parma, nella sede del Ris, il reparto scientifico dell’Arma dei Carabinieri. E il disegno di legge portato al Consiglio dei ministri accoglie, in realtà, un progetto caldeggiato per anni dal generale Luciano Garofano, comandante dei camici bianchi dell’Arma e da Aldo Spinella, il «biologo» della polizia di Stato. Garofano ha sempre sostenuto che non avere questa banca dati penalizza le indagini ed è un’autentica «vergogna» per il nostro Paese. «Mi sono battuto cinque anni - commenta invece l’ex ministro della giustizia, Roberto Castelli - per introdurre il prelievo coatto ma alcuni iper garantisti della Casa delle Libertà mi hanno sempre osteggiato. Vedevano con orrore questo provvedimento quando, invece, in sede internazionale la posizione italiana suscitava sempre imbarazzo». «È un modo per garantire - osserva il guardasigilli Clemente Mastella - anche quel grado di sicurezza e per infliggere una sorta di paura più forte a chi è responsabile di delitti o attività di natura criminale. È anche un fatto tranquillizzante per l’opinione pubblica perché porta lo Stato ad essere più forte contro quelli che ritengono di farla franca».
Il ddl, sempre che superi il vaglio del Parlamento, è anche frutto del programma sulla sicurezza della Margherita e offre analogie con diversi disegni di leggi presentati anche dall’opposizione. Come quello di Giuseppe Valditara (An) e voluto dal Sap, il Sindacato autonomo di polizia.

Valditara immaginava il prelievo solo per chi si rifiuta di fornire le generalità o che è condannato (e quindi non solo indagato) per un reato per il quale è prevista una reclusione superiore a tre anni. Diversa però la natura del prelievo visto che An voleva introdurre anche quello ematico, non previsto invece dal ddl del guardasigilli.
gianluigi.nuzzi@ilgiornale.it

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