Senato da incubo E Prodi ripesca lo Statuto dell’800

Arturo Diaconale

Le invocazioni retoriche al ritorno allo Statuto si sono avverate. Con l’avvento del governo di centrosinistra, siamo praticamente tornati allo Statuto. Ovviamente quello Albertino. Ma non nel senso del recupero di una legalità costituzionale che non si è mai persa. Ma nel senso che, nel tentativo di supplicare alle difficoltà e lacerazioni della propria maggioranza, l’esecutivo di Romano Prodi sembra aver riesumato alcune pratiche dello Statuto del 1848 che sembravano ormai morte e seppellite da tempo immemorabile.
La pratica più evidente è quella che a Palazzo Madama riguarda il sostegno dei senatori a vita ad un governo che zoppica e rischia di cadere ad ogni passo. Prima della Repubblica e durante il Regno, i senatori non venivano eletti ma erano tutti di nomina règia. Il Senato aveva la teorica possibilità di bocciare i provvedimenti del governo. Ma nella pratica ciò non avveniva mai. Per la semplice ragione che, quando fiutava l’aria avversa a Palazzo Madama, l’esecutivo in carica proponeva al Sovrano una infornata di nomine senatoriali di proprio gradimento che veniva puntualmente concessa. Ed il pericolo svaniva come neve al sole.
Certo, la situazione di allora è diversa da quella di oggi. Ma che dire se tutti i senatori a vita si schierano sempre e comunque a favore del governo di centrosinistra, trasformando un privilegio in uno strumento decisivo per le vicende politiche nazionali? E come non rilevare che se le infornate di senatori regi erano sempre funzionali alla stabilità dei governi in carica, le nomine dei senatori a vita finiscono sempre col premiare personaggi politicamente schierati a sinistra?
A questa analogia tra senatori di nomina regia e senatori a vita repubblicani se ne aggiunge una seconda addirittura più grave. Lo Statuto albertino attribuiva al sovrano il compito di aprire annualmente le sessioni del Parlamento. La prassi, poi, consentiva ai presidenti delle Camere, espressione dei governi in carica, di calibrare gli impegni di Camera e Senato fissando calendari di sedute molto elastici. I governi, ovviamente, sfruttavano al meglio questo meccanismo. E nelle fasi politiche più tormentate e difficili tendevano a ridurre al massimo le sedute parlamentari. Per impedire all’opposizione di svolgere le proprie battaglie parlamentari e garantire agli esecutivi di galleggiare, evitando il pericolo di eventuali affondamenti.
La parte iniziale dell’attuale legislatura ricalca quasi alla lettera l’esempio del passato. Il governo evita accuratamente di finire in passaggi parlamentari pericolosi. Deputati e senatori passano le giornate rigirandosi i pollici. E quando si profila qualche seduta in cui la maggioranza potrebbe lacerarsi o esplodere, Romano Prodi si affretta a chiedere il voto di fiducia.
Questa pratica, ovviamente avallata dai presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama, Fausto Bertinotti e Franco Marini, rischia di trasformare le aule del Parlamento in una sorta di musei aperti alle sole visite delle scolaresche. E, naturalmente, di bloccare il meccanismo fisiologico della democrazia parlamentare fondato sul confronto tra maggioranza ed opposizione.
Di qui la necessità per il centrodestra di reagire.

Denunciando per un verso il rischio connesso al surrettizio ritorno allo Statuto albertino. Ma anche prendendo in considerazione la pratica della autoconvocazione in Parlamento. Per evitare che Palazzo Madama e Montecitorio possano riempirsi di metaforiche ragnatele antidemocratiche.

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