Ma senza un metodo resteremmo tutti al buio

Da nonno entusiasta di gemelline sui tre anni, mi preparo alla bordata di domande, di cui già accuso i prodromi: «perché il sole va a nanna? perché la luna sta attaccata al cielo?». Pedagogia alla buona, la mia, domestica, collaterale, intendiamoci, ma non ne sottovaluto l’impatto formativo. Quando verrò interpellato su come è partito lo strepitoso macchinario del mondo, non farò il soffietto a Darwin, raccontando che lo scimpanzé è il nonno di tutti noi (Darwin stesso non l’ha fatto, l’efficace semplificazione è del reverendo Samuel Wilbeforce, 1860, il primo furibondo detrattore). Ma non getterò, insieme all’acqua sporca, anche il bambino. Che in questo caso, a parer mio, è costituito da un paio di idee forti che puntellano l’edificio spericolato del cosiddetto darwinismo.
La prima è che se siamo qui a discutere di queste ricche questioni, è anche perché un progresso (chiamiamolo pure evoluzione) c’è stato. E nulla è positivo quanto il sentimento del passo avanti, del migliorare. Quattro decenni d’insegnamento mi stampano dentro il credo (corroborato da uno specialista come il latino Quintiliano) che far luce sulle forze innovatrici agenti in ogni campo, storia, letteratura, pensiero, vicenda biologica, sia la molla più energica per stimolare all’indagine critica, all’apprezzamento del sapere, alla costruzione di un’ossatura intellettuale. Gli storici collocano Darwin e le sue ipotesi in un’epoca elettrizzata dal senso dell’avanzamento positivo, quando le scoperte di Maxwell, di Pasteur, di Mendel, le teorie di Comte e Spenser irrobustirono la fiducia che se questo non era il migliore dei mondi possibili, c’era però qualche speranza di sconfiggere gli spettri e gli incubi di sempre. Seguirono gli egoismi immani dei mercanti, le ingordigie coloniali delle nazioni, il secolo delle carneficine, ma l’uomo che circumnavigò il globo sulla Beagle, naturalista «senza paga», voleva solo vederci chiaro negli ingranaggi della natura, non fu un artefice complice di orrori.
Nel concepire la mole cosmica come determinato (e, forse, consapevole) laboratorio di incessanti selezioni migliorative, Darwin era in buona compagnia. I presocratici ellenici già descrivevano la vicenda come un colossale trasformarsi dal caos all’ordine, fossero elementi primordiali che stringevano patti e ingaggiavano guerre, o atomi infiniti che turbinavano in base a occulti disegni. Il suo compagno di tomba, a Westminster, Isaac Newton, dimostrò che nell’apparente vaghezza della multiformità una regola vigeva, e che la mente umana, grazie alla suprema disciplina, la matematica, era abile a calcolarla, a dominarla. «Ho un ardente desiderio di contribuire alla nobile struttura della scienza naturale» scrisse il ricercatore nella sua Autobiografia.
E qui, nel termine «struttura», scorgo il secondo pregevole pilastro. Intelaiare il sapere, raccordare le mappe sparpagliate di un percorso, cercare con passione ciò che unisce, per disperdere il pulviscolo della confusa divisione: ecco il sistema, ciò che dà senso compiuto alla ricerca, nelle varie aree della cultura. Darwin riconobbe nell’evoluzione selettiva il filo, e lo seguì con pia ferocia.

Eliminò il Creatore, attirandosi il biasimo di ateo. Laico sarebbe forse l’attributo più conforme. Nella natura darwiniana prevale il migliore, chi sfrutta le doti. Ma anche nel Vangelo (Matteo, 25, 14-29), parabola dei talenti, accantonare i doni è il peccato più grave.

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