Sharon operato d’urgenza e salvato in extremis

I medici: «Non è più in immediato pericolo di vita»

Sharon operato d’urgenza e salvato in extremis

Gian Micalessin

da Gerusalemme

«È finita?» La signora alza gli occhi, scruta tra le falde del cappellino rosa. Punta un dito verso il palazzaccio di mattoni. Si scusa per quella domanda un po’ indiscreta, un po’ ficcanaso. In fondo è Shabbat. Non fosse per il marito malato non sarebbe qua. Ma ci son giornalisti, polizia, ansia e agitazione. Come non accorgersene. Lassù, dietro quelle mura vermiglie succede qualcosa. La signora immagina, sospetta. Gran parte dei suoi connazionali ancora non lo sa. Ariel Sharon, il grande vecchio vacilla di nuovo, ondeggia tra il grande e l'ultimo sonno. Israele sonnecchia, riposa, poltrisce ignaro nella sacra quiete dello Shabbat, tra radio spente, tv ammutolite. La frenesia è solo quaggiù. Sotto le vetrate dell'Hadassah Hospital di Ein Karem. Nel piazzale brulicante di obbiettivi, microfoni e telecamere. «La vita di Sharon è in pericolo», sussurra alle dieci la portavoce Yael Bossem Levy. Mezz'ora e il piazzale è pieno. «Se ne sta andando». «È già morto». «Attendono solo la fine dello Shabbat». La notizia salta di bocca in bocca, rimbalza tra giornalisti e fotografi, dilaga in chiacchiere e dicerie. Lassù la barella con il grande malato corre dalla neurologia alla terapia intensiva. Il corpo senza un fremito scivola nel cilindro della Tac. Gli occhi dei medici stavolta ignorano il cervello assopito, rincorrono le pieghe delle viscere. La temperatura sale, le analisi segnalano globuli rossi in libertà. «Febbre, infezione, intestino bloccato, necrosi», recita il bollettino. «Arterie bloccate, intestino marcio, organi in disfacimento», rilancia per cinque ore e mezzo la vulgata sotto le finestre. Arik, o ciò che resta di lui, è di nuovo sotto i ferri. Per la settima volta in 38 giorni. Alle cinque del pomeriggio dopo tre ore d'operazione il professor Shlomo Mor Yosef, direttore dell'Hadassah, si precipita davanti alle telecamere, resuscita il grande malato. «Al momento la situazione è seria, la situazione è stabile, la situazione è critica, non c'è immediato pericolo di vita». Una dichiarazione da sfinge seguita da qualche briciolo di concretezza. Pressione e battito sono di nuovo regolari - racconta il professore - ma cinquanta centimetri di intestino crasso, un terzo dell'intero colon, erano già in cancrena. I bisturi hanno tagliato, ridotto, ricucito. Sharon è ancora vivo. Sharon non è ancora morto, ma, il puntiglioso Mor Yosef lo ricorda, quelle tre ore e passa di operazione non hanno certo «migliorato la salute». Insomma l'abbiamo salvato, l'abbiamo preso per i capelli, ma è stata una settima pugnalata alla pancia di un moribondo. L'ultimo dissesto Mor Yosef non lo spiega. Racconta solo la grande paura, alle prime ore dell'alba, quando la febbre saliva e la speranza scemava. «Non potendo chiedergli come si sentiva gli abbiamo fatto una tac», dice con un umorismo involontario. La reticenza di Mor Yosef è quella di tanti medici davanti a un corpo al lumicino, di fronte al grande mistero. Quelle viscere incancrenite sono l'ennesima conseguenza di arterie e vene ostruite o solo l'ultimo sintomo dell'irrefrenabile disfacimento? E cosa ne è stato degli anticoagulanti accusati di aver trascinato Arik dall'ictus iniziale a quello fatale? Li prende ancora? I medici tamponano, tagliano, cuciono, ma non rispondono. Forse è solo una verità irrilevante, un particolare marginale nel precipizio tra malattia e fine, nell'inevitabile guado dal limbo alla tenebra. Dura dal quattro gennaio. Era sera. L'Hadassah lo aspettava la mattina dopo. Doveva essere solo un banale intervento al cuore. Un forellino tra i ventricoli, un difetto vecchio e congenito da ricucire. Invece il sangue inondò il cervello e Sharon precipitò nel limbo. I bisturi, da quella sera, han scavato per tre volte nella scatola cranica, bucato la trachea, allargato la gola. Qualcuno lo chiama accanimento. Qualcuno, sotto le finestre dell'Hadassah, ripete la leggenda dell'ultima sera alla fattoria, la promessa imposta a figli e collaboratori di tentar il tutto per tutto prima di chiudergli gli occhi. La verità non la sa nessuno, ma Omri e Gilad erano al capezzale di papà e incoraggiavano i medici a riprovare.

Ilan Cohen, Dov Weisglass e Lior Horev, il gotha dei fedelissimi guidati dall'autista e dalla segretaria personale di Arik, sono arrivati a operazione iniziata. Per tutti un'unica dichiarazione. Un ultimo atto di fede in due parole. «Speriamo ancora».

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