La Shoah di carta apre una breccia a sinistra

È micidiale ma anche molto salutare la polemica sul prossimo Salone del Libro di Torino che, viene confermato dalla direzione insieme a Elazar Cohen dell’ambasciata, onorerà l’impegno preso con lo Stato d’Israele nel sessantesimo anniversario della sua nascita di avere lo Stato Ebraico come ospite. Micidiale per vari motivi: gli oppositori duri della scelta di invitare lo Stato Ebraico come ospite nel suo sessantesimo anniversario si sono scoperti usando argomenti belluini e miserabili, minacciando e mentendo, ridicolmente indicando nello Stato di Israele una banda di persecutori, di assassini; si sono dimostrati ciechi di fronte alla resurrezione del popolo ebraico dopo la Shoah e dopo tanti anni di diaspora; ignorano l’aggressione che Israele, sempre pronta a condividere il territorio spartito dall’Onu, subisce dal 1948, e della colpevole stupidità con cui i palestinesi hanno sempre rifiutato ogni proposta di pace. Dicono un sacco di sciocchezze con tono di sicumera, e ci danno così la misura di quanto sia stato a forza di urla inconsulte e di disinformazione che in Italia si è diffuso il discorso politico che ieri si collegava al rifiuto arabo filosovietico, oggi prende le mosse da Ahmadinejad, Hamas, Hezbollah, Al Qaida; di fatto è in nome di una serie di bugie (come quella ripetuta ad nauseam che Israele, che di fatto l’ha sgomberata, “assedi” Gaza che invece in realtà assedia la popolazione civile israeliana con missili e attentati come quello di ieri) che lo schieramento anti Salone indica Israele come spazzatura della storia. L’Occidente deve prepararsi alla prossima scomparsa di Israele, dice Ahmadinejad; qui da noi, chi indica come lebbrosi i suoi intellettuali, ne segue le tracce. L’odio emerge, quel che è peggio, travestito da amore per i diritti umani, e nessuno degli indignati pensa di opporsi alla prossima scelta del Salone per Egitto, o, che so, alle Olimpiadi in Cina. Oltre alla scia dell’odio, ce n’è anche un’altra che, come una bava di lumaca ha segnato questo dibattito: è la posizione di chi dice, dopo qualche ovvietà sull’importanza dello scambio culturale, che gli scrittori israeliani non sono Olmert, che sono artisti, anzi, artisti di sinistra, e che quindi non sono responsabili delle scelte di Israele. Intanto, questo mette automaticamente al bando gli intellettuali israeliani non di sinistra, scelta quanto meno bizzarra quando si parla del ruolo universale della cultura. Ci sono ottimi intellettuali israeliani su ambedue i versanti politici, come in America, o in Italia, e là, come in ogni altro Paese con una storia profondamente legata a quella del loro Paese. Chi ha letto i libri di Oz, Yeoshua, Grossman, sa quanto anche questi autori siano alla fine dei patrioti, cosa indispensabile in uno stato assediato. E poi, che ha fatto di male il povero Olmert, che cerca disperatamente come tutti i suoi predecessori quell’accordo di pace che è invece il mondo arabo a non voler concedere? Qualcuno si ricorda quante ne sono state dette su Begin, su Rabin, su Barak, su Sharon, tutta gente che alla fine altro non ha fatto che tentare invano il sogno di Israele, quello di cedere territori in cambio di pace? La mentalità per cui da noi si legittima soltanto “l’altra Israele” è proprio la menzogna che consente all’odio di riempire la propria faretra di frecce infuocate, e al mondo arabo di comportarsi irresponsabilmente.
Ma dicevamo, c’è stato anche un aspetto assai positivo nella vicenda: si è finalmente mostrato un universo che alle cene o nei dibattiti è sempre molto timido, e che invece esiste, sembra, anche a sinistra: quello di chi ritiene ridicolo, comunque, criminalizzare Israele in toto. In parecchi, compreso il sindaco di Torino Sergio Chiamparino o l’on.

Piero Fassino, hanno mostrato il petto nello scontro, coraggiosi islamici come Magdi Allam e Khaled Fouad Allam hanno fatto sentire la loro voce dicendo una cosa che deve entrare nella coscienza comune urgentemente: Israele è oggi un punto centrale nel dibattito internazionale, non è permesso ripetere formule cretine, nessuno può dirsi civile se non parte dalla piena cittadinanza intellettuale e civile a quel piccolo Paese che fondò prima la Filarmonica e l’Università e poi lo Stato, e che celebra quest’anno solo 60 anni tormentati da guerre indesiderate.
Fiamma Nirenstein

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