Nell’Italia del «lei non sa chi sono io» fa ancora una certa impressione il faccia a faccia con un giudice antimafia. Faccia di bronzo nel nostro caso. Perché la quarantenne, e passa, Cristina P., di cui peraltro non si conoscono le fattezze, si è inventata magistrato. Mica per scansare una contravvenzione stradale; no, non ci si sciupa per così poco. Lo insegnava anche Totò: se devo vendere un pezzo di Roma a un turista boccalone non gli affibbio un sanpietrino della Via Appia, gli rifilo tutt’intera Fontana di Trevi. Più la sparo grossa, più la panzana diventa credibile.
Dunque la signora o signorina Cristina, il dettaglio non è precisato dall’agenzia che ne decanta le imprese, un bel giorno dell’estate 2005 si è presentata in Versilia. Viaggio breve, visto che ha la residenza a Firenze. Sono un giudice antimafia e sto lavorando, «in incognito», ha precisato, a un’inchiesta, «delicata», manco a dirlo. Insomma parlava più come un telegiornalista che come un giudice, categorie spesso unificate da un italiano naïf. Non ha aggiunto top secret, perché ignorava quale delle due E andasse pronunciata I. Meglio non esagerare. Comunque sia, una balla clamorosa, sparata con sicumera alle persone giuste. In tribunale quindi? Macché, troppo pericoloso e soprattutto inutile per il suo obiettivo.
In una fiction, tipo Carabinieri 26, il finto magistrato si sarebbe presentato alla porta del carcere, e mostrando ineccepibili credenziali, se la sarebbe svignata lentamente sottobraccio a Provenzano e Riina. Cristina P. vola più basso, probabilmente la piovra l’ha vista soltanto in tv, e comunque non ha intenti rivoluzionari. No, lei, a costo di deludere schiere di giallisti, vuole soltanto farsi una vacanza a sbafo. Ecco quindi la scelta mirata dell’interlocutore; per dormire, mangiare e spaparanzarsi sulla spiaggia senza sganciare un euro, occorre far breccia nel cuore di albergatori, ristoratori e bagnini.
«Sono in contatto con i più importanti magistrati d’Italia - raccontava con sfrontata naturalezza, addentando una porzione di spaghetti alle vongole o facendosi aprire la sdraio - però, mi raccomando, non dite niente in giro: sto lavorando a un caso molto difficile, ci vuole riservatezza». Una fanfaronata bella e buona, che non verrebbe in mente neanche a uno sceneggiatore televisivo di quarta schiera. Però, evidentemente, faceva colpo. Pavidità, ingenuità o interesse a futura memoria, fatto sta che tutti erano pronti a ospitare gratis la giudicessa. Che con un’originale ciliegina sulla sua torta di menzogne, aveva osato spingersi oltre: «Nel prossimo weekend verrà qui il procuratore generale antimafia, Pietro Grasso. Lui e la sua scorta si muoveranno in incognito: non potreste preparare per loro delle specialità del vostro ristorante?». Una richiesta da sbellicarsi, con postilla da slogatura delle mascelle: «Passerò a prenderli io».
Santo candore, per usare un eufemismo, lo chef, manco fosse un sommelier, s’era bevuto tutto. Comprese la puntuale apparizione della donna, giunta a prelevare i manicaretti, e la sua successiva ricomparsa per i doverosi ringraziamenti: «Un successo, Pietro Grasso vi ringrazia, è rimasto entusiasta». Chissà se ci è scappata almeno una mancia per i premurosi cuochi, ma è lecito dubitarne.
Anche se ogni bel gioco dura poco, come garantisce un proverbio, Cristina C. ci ha preso gusto, tanto da commettere un errore. Il ristoratore plurigabbato e ultrafiducioso ha chiesto un favore all’insaziabile ospite: «Dovrebbe controllare che fine ha fatto la mia richiesta per il porto d’armi». «Ci penso io - ha risposto con prontezza la giudicessa in perenne vacanza - però mi serviranno cinquemila euro per tutte le pratiche». Troppo? Ok, il prezzo era giusto per il tartassato cronico, sollecito a sganciare la somma.
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