C’era una volta una sinistra che si voleva liberare dell’antiberlusconismo. Era una sinistra moderna che aveva fatto i conti con gli umori del Paese e che voleva cambiare strada. L’annuncio della fine della guerra l’avevano dato in tempi diversi D’Alema e Veltroni, i due maggiori esponenti, con Prodi, del centrosinistra. D’Alema questo tasto lo batteva da sempre. Fu lui che, analizzando l’andamento del voto negli ultimi quindici anni, aveva concluso che neppure nelle due vittorie elettorali del centrosinistra questa coalizione era maggioranza nel Paese e aveva invitato la sinistra ad analizzare le ragioni vere del successo del premier.
Veltroni, che le cose le fa in grande, aveva addirittura fatto della fine dell’antiberlusconismo la bandiera della sua segreteria avviando persino il dialogo con l’altra parte e dichiarandosi disponibile a un governo comune per cambiare la legge elettorale. Nella sinistra radical erano note le tesi anti-giustizialiste di Fausto Bertinotti. La sua Rifondazione, così severa sui temi sociali, non aveva mai mostrato simpatia per chi criminalizzava la controparte. Un tappeto di buone intenzioni che veniva, e viene, calpestato con regolarità alla vigilia di ogni scadenza elettorale.
Sta accadendo anche questa volta. Prima con la festa di compleanno della giovane Noemi, poi con la pubblicazione delle motivazioni della sentenza che condanna l’avvocato Mills. E si ricomincia come sempre. Ho ascoltato D’Alema a «8 e mezzo», versione Lilli Gruber, martedì sera, e Bersani a «Omnibus» ieri mattina. Neppure loro si sono sottratti al tributo da pagare alla ripresa di antichi temi. È come se la sinistra non sappia fare a meno del «mostro», richiamata alla disciplina da una foresta che consuma e divora la vocazione riformista.
Accade così, a poco più di quindici giorni dalla fine della nuova campagna elettorale, che il pallino della sinistra viene consegnato nelle mani di Di Pietro. Le buone intenzioni e le analisi pensose vengono abbandonate e si ritorna al vecchio copione malgrado abbia sempre prodotto un film con un finale cattivo per la sinistra.
All’inizio del fenomeno Berlusconi, la deriva giustizialista si poteva comprendere (non condividere) vista l’assoluta novità del personaggio che era sceso in campo. Una sinistra convinta di dover ereditare, come una mela matura, il governo del Paese dopo il crollo dei principali partiti di governo della Prima Repubblica, era stordita da questo nuovo personaggio che raccoglieva consenso a piene mani.
Era la sinistra post-berlingueriana, quella del «doppio Stato» e della «questione morale», che leggeva le sconfitte non come la rivelazione di un proprio limite ma come frutto di un tenebroso complotto. Nel grande corpaccione della sinistra la tesi giustizialista aveva preso il posto di altre teorie palingenetiche. Di qui il duro scontro politico e l’attesa della Sentenza, con la S maiuscola, che avrebbe liberato il campo dall’odiato nemico. Le cose sono andate come sono andate e una parte della sinistra si è interrogata sui propri limiti e sulle ragioni del successo dell’avversario.
Il giustizialismo sembrava perdere peso e si rifugiava, in parte, all’esterno della vecchia sinistra. Ma l’assedio alla sinistra riformista era guidato da alcuni quotidiani, da intellettuali di area e trovò anche un movimento, quello dei famosi «girotondi», che negli anni di Cofferati tentò il colpo di Stato per decapitare il vertice dei Ds e imporre un gruppo dirigente più legato ai magistrati.
Allora l’ispiratore di questa sommossa modello «guardie rosse» fu Walter Veltroni, per questo fece molto clamore l’ex sindaco di Roma quando, alla vigilia dell’ascesa alla segreteria del Pd, annunciò la fine della stagione antiberlusconiana. Tuttavia il mondo giustizialista non era stato battuto. Fu proprio Veltroni con l’alleanza con Di Pietro a regalargli una nuova possibilità.
La partita di oggi si gioca tutta qui. So che gran parte del gruppo dirigente del Pd non crede alla ripresa del vecchio tema giustizialista e antiberlusconiano, ma è facile immaginare che tutti loro siano terrorizzati dalla concorrenza sleale di Di Pietro. Accadrà così che le ultime settimane della campagna elettorale saranno praticamente dominate dal «caso Noemi» e dal «caso Mills». Il topolino riformista imprigionato nella ruota inseguirà, senza raggiungerlo mai, il topone giustizialista che, alla fine, quando la ruota sarà fermata, mangerà il pezzo di formaggio.
L’inseguimento di Di Pietro rivela anche una scarsa conoscenza da parte dei leader del Pd della propria base. Non si rendono conto che i più giustizialisti se ne sono già andati e che il popolo riformista da tempo è insofferente verso Di Pietro e i dipietristi. Finirà come le altre volte.
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