«Siamo nello spazio sbagliato Non resta che dare i numeri»

Diciamocela tutta, cari Antonio Rezza e Flavia Mastrella: sui palcoscenici costruiti sulle sculture di Flavia, Antonio salta, urla, strepita. Mette tutto se stesso, e il pubblico si sganascia. E guardate la locandina scelta per lo spettacolo che va in scena dall’8 dicembre al teatro Vascello: talmente fuori dai canoni estetici da essere inquietante.
Antonio: «A noi ci piace».
Flavia: «Siamo figli della civiltà dell’immagine, combattiamo la guerra formale».
Ma ci portereste vostro figlio?
F: «Lui ce l’ha portato».
A: «S’è divertito, alla prima di Torino».
Irresponsabili. Quanti anni ha?
A: «Dieci mesi».
Come si fa a dire che ha gradito?
A: «Assieme all’amichetto, 11 mesi, percepivano il ritmo dello spettacolo».
F: «Si dimenavano: all’insù-all’ingiù oppure di qua-di là».
Insofferenza: volevano scappare.
F: «Impossibile, le porte erano chiuse».
A: «Ne abbiamo portati anche tanti altri, età diverse, risultato uguale».
F: «Solo che gli adulti si vergognano di seguire il ritmo con il corpo, per fortuna».
A: «Però in sala bisbigliano, anticipando i numeri che traccio sulla scena».
E questa storia dei numeri... Ma come si fa a scegliere come titolo «7-14-21-28»? Che cos’è, una sequenza esoterica? Un invito a giocare al superenalotto?
F: «Non ci avevo pensato. Buona idea».
A: «Li giochi Lei, facciamo a mezzi».
Troppo.
A: «Vabe’. A noi il 7 per cento»
F: «Il 14».
A: «Il 21».
F: «Il 28».
Ve lo scordate. Al massimo il 7. Siete ossessionati, da questa sequenza.
A: «In effetti, ha creato non pochi problemi. Ne volevamo fare anche un gioco di società: il primo gioco di società che devi stare da solo per giocare. Dunque rivolto ai più sfigati, un gioco d’identità».
F: «E poi la gente equivoca, pensa che andiamo in scena solo quattro giorni su 31».
A: «Invece siamo qui tutti i giorni, tranne il lunedì. Persino l’ultimo dell’anno».
Il veglione con il vostro spettacolo al Vascello è una tradizione. Torniamo ai numeri, la logica che contestate.
A: «È la storia: un uomo vive in un Paese allo sbando e resta affascinato dall’idea dello spazio che diventa numero. La storia è stata distrutta, si ride su concetti appena accennati, con agganci spaziali».
F: «Cessa il legame con il passato. Si gioca alla vita in un ideogramma».
Così non ne veniamo fuori. Che rappresenta, questo ideogramma? Perché poi, un ideogramma?
A: «È la rappresentazione grafica delle macchine scultoree inventate da Flavia».
F: «Ci siamo ispirati ai cinesi. Sono operosi e taoisti, ci stravolgeranno la vita».
A: «E poi abbiamo conosciuto un ragazzo cinese del teatro dell’opera di Pechino. Doveva nascere con lui, questo spettacolo: fa una specie di salto mortale talmente rapido che persino la telecamera non riesce a fissarne i movimenti».
Ma il bello della ditta Rezza-Mastrella, per chi vi conosce, è che ciò che con le parole sembra invalicabile, sulla scena è incredibilmente semplice. Siamo nel pre-teatro, non nell’avanguardia.
A: «È la pigrizia di chi sta fermo in retroguardia, che ci addita come avanguardia».
F: «Noi siamo il nostro tempo, noi viviamo qui, ora. Sono loro troppo indietro».
A: «Si dice sempre che si vive in un tempo sbagliato, ma la realtà è che noi tutti viviamo nello spazio sbagliato».
Per questo Flavia ingabbia Antonio nelle sculture, che spesso vengono poi vendute ai musei d’arte contemporanea.
A: «Mi rinchiude in questo spazio, e lì vivo durante lo spettacolo».
F: «Perché lui dà vita alle sculture».
Non Le va un po’ stretto, questo spazio che Le viene assegnato?
A: «No. Anche perché non mi dò tregua: è una fatica, ma mi fa star bene».
Lei un masochista, Flavia una sadica.
F: «Io mi diverto. Un po’ meno quando le rompe, le sculture. Capita, anche se in genere lui le vive con delicatezza... Le anima, le stravolge. Entra dentro queste cose, le attualizza».
Con il suo modo dirompente di stare sulla scena Antonio parla direttamente all’essere. Ma non temete che la gente possa bloccarsi e rinunciare a capire? Mai il sospetto che ci voglia un po’ di semplice banalità per invogliarli a varcare la soglia del teatro? Detta fuori dai denti:non sarete un po’ troppo elitari?
A: «Non siamo affatto elitari».
F: «Macché elitari: nel 2030 questo sarà il modo di comunicare, noi parliamo già il linguaggio di allora».
A: «Altro che elitari: io la gente la voglio.

Ma senza inganni, non farò mai nulla per tirarla dentro a tradimento».
F: «Vogliamo diventare fenomeno di massa, però guai a snaturare la nostra anima. Dobbiamo essere noi stessi, è per questo che il nostro pubblico ci ama».
A: «Il pubblico, il miglior carnefice di se stesso».

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