«Per accusarti non deve esserci necessariamente qualcosa da denunciare... Un secondo dopo che ti accusano vengono a prenderti, poi sta a te darti da fare per dimostrare che sei innocente...». Queste sono parole che Fazil, il protagonista di Signora Vita (edizioni e/o) sente pronunciare da una delle due donne che ama, Sila. Sono parole che si riferiscono alla situazione della Turchia contemporanea e, quando Ahmet Altan le ha scritte, si trovava ancora in cella, con l'accusa di appartenere a un'organizzazione terroristica; un'accusa considerata fittizia poiché Altan, scrittore e giornalista, nato ad Ankara nel 1950, è finito in carcere, dopo il tentato colpo di Stato del 2016, perché da tempo critico nei confronti di Erdogan. Dopo anni di proteste internazionali, Altan è stato liberato il 14 aprile scorso. Signora Vita, il suo nuovo romanzo, è stato scritto in prigione, da dove Altan mandava messaggi come questo: «Sì, sono stato rinchiuso in una prigione di alta sicurezza in mezzo al nulla (...) Sì, non posso vedere nessuno tranne il mio avvocato e i miei figli; non mi è nemmeno concesso di scrivere ai miei cari. Tutto questo è vero, ma non è tutta la verità. Ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare, anche se non ho mai incontrato la maggior parte di loro (...) so anche che sono uno scrittore e che un giorno tutti si ritroveranno tra le pagine di un libro. Sono uno scrittore. Ovunque voi mi chiuderete, io viaggerò per il mondo sulle ali dei miei pensieri».
Fazil, il protagonista di Signora Vita, si trova anche lui in una prigione: è la sua vita, quella di uno studente di Letteratura cresciuto in una famiglia ricca che si è ritrovata povera all'improvviso, proprio come quella di Sila, bella e aristocratica, finita in mezzo a un parco con il padre, la madre e una valigia a testa nel cuore della notte, mentre venivano sequestrati tutti i loro beni. Fazil e Sila sono «in esilio» a casa loro, «due tartarughine private del guscio». Signora Vita è un'altra donna ancora, Hayat Hanim, «lady Life», quasi il personaggio di una storia medievale, una chioma di capelli rossi che avvolgono, un abito sinuoso color miele, una certa quantità di anni e di esperienza alle spalle (molto più di Fazil). Hayat Hanim trasporta Fazil in un altro mondo, quello di una donna che «non era libera per sfida o sottomissione, era libera perché non chiedeva né si curava di nulla»; e Fazil si abbevera a questa libertà, ne diventa dipendente, mentre gli «uomini barbuti con i bastoni» iniziano a girare per la città massacrando di botte chi non si veste, non beve, non si diverte e non è come loro, gente nei locali, persone per strada, prostitute... Ma non finisce lì, la polizia tenta di entrare all'università perché ha ricevuto «una denuncia» per degli striscioni; poi arresta i professori che hanno «firmato una petizione»; poi i barbuti si fanno sempre più vicini... E intanto Sila cerca di convincere Fazil a fuggire con lei in Canada, e a lasciar perdere la rivista clandestina in cui si è impegnato.
È durante una lezione che Fazil si pone all'improvviso la domanda: «Io sono libero?» e non solo scopre che «la risposta era più temibile della domanda», ma che c'era una questione ulteriore da affrontare: «avrei mai potuto essere libero?». A questa domanda cerca di rispondere Fazil, attraverso la letteratura e l'amore, come ha cercato di rispondere, con coraggio, Ahmet Altan dalla sua cella.
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