Solo talebani e woke cancellano le rovine

Il saggio di Alain Schnapp fa riflettere su senso del passato e modo di conservarlo (o distruggerlo)

Solo talebani e woke cancellano le rovine

Le colonne sbreccate, le antiche volte, i lacerti del papiro faticosamente ricongiunti, le pietre megalitiche erette in modo misterioso e per scopi misteriosi. Le civiltà esistono perché guardano indietro, si appoggiano sul loro passato, anche se lo fanno in mille modi diversi. I primi ad accorgersene furono probabilmente Egizi e Sumeri. Non solo costruendo opere enormi, capaci di restare nel tempo, di lasciare un'impronta - può un umano non voler lasciare almeno qualcosa di sé? - ma anche dimostrando, già, una precisa volontà archeologica, un desiderio di preservare e riscoprire chi era vissuto prima.

Khaemwaset figlio di Ramesse II (1290 - 1224 a.C.) e gran sacerdote di Ptah a Menfi fu in qualche modo il curatore della necropoli di Saqqara. Scoprì la statua di un suo predecessore, il sacerdote Kawab, figlio di Cheope (circa 2700 a.C.). Per lui era già un oggetto vecchio di mille e cinquecento anni. La restaurò immediatamente, spiegando che lo faceva perché «amo i nobili antenati che vivevano un tempo e dei quali ogni impresa fu eccellente, veramente utile un milione di volte; che questo duri sulla terra, per assicurare la vita, la stabilità, il potere».

Una dichiarazione di intenti antichissima che spiega almeno uno dei motivi per cui esiste quel culto delle «rovine» che attraversa tutte le civiltà. E se questa è una delle prove scritte più remote di quel culto, testimonianze archeologiche ci mostrano che già dal neolitico la memoria del prima era un elemento, fondamentale, di tutte le culture umane.

È quello che racconta il ponderoso e poderoso saggio di Alain Schnapp, Storia universale delle rovine. Dall'origine all'età dei lumi, appena pubblicato da Einaudi (pagg. 926, euro 120). Il volume, che ha anche uno strepitoso apparato iconografico di ben 156 illustrazioni, ripercorre costanti e varianze del rapporto con la memoria materiale del passato in tutto il pianeta. Si va dai Churinga dell'Australia alle piramidi dei Maya, passando per le antichità classiche e il pensiero europeo.

L'oggetto di memoria può essere il più vario, ma esiste sempre. Ad esempio i Churinga che abbiamo appena nominato: sono manufatti ovali - in pietra e legno - che rappresentano il corpo fisico di un determinato antenato della tribù, e vengono, di generazione in generazione, attribuiti alle persone vive considerate la reincarnazione di quell'antenato. In questo caso le «rovine» sono portatili.

Per le civiltà sumere, che utilizzavano molta meno pietra degli egizi, quello della caducità delle cose costruite era un vero e proprio incubo. Il rischio di perdere la memoria, di veder sgretolare le iscrizioni sulle ziggurat era una continua minaccia all'ordine e alla memoria. E allora l'abitudine a creare vere e proprie capsule del tempo. Cofanetti segreti che venivano sepolti sotto il monumento, per ricordare chi lo aveva edificato ed eventualmente restaurato. Una spinta fortissima a preservare l'oggetto ma anche l'uomo dietro l'oggetto che ha creato. Così si chiude l'Epopea di Gilgamesh: «Trova il baule di rame/ rompi la serratura che è di bronzo/ apri il coperchio sino al suo contenuto segreto/ prendi e leggi ad alta voce la tavoletta di lapislazzuli/ come Gilgamesh ha attraversato tutte le sue prove». È un rimando preciso ad una tradizione di memoria, queste arche del tempo sono state trovate in continuazione dagli archeologi. Ogni egizio o mesopotamico è un antiquario che non sa di esserlo.

Come spiega con dovizia di particolari Schnapp, professore emerito dell'Università di Parigi e fondatore dell'Institut national d'histoire de l'art francese, il rapporto con le rovine diventa poi ancora più complesso nella modernità. Tiene in equilibrio il sentimento del trascorrere del tempo, che mostra la caducità umana, con l'idea di una continuità di quello che il passato comunque ci lascia. La «rovina» diventa, di volta in volta, lezione morale, monito della natura fragile dell'uomo, aspirazione al ritorno ad una grandezza passata. Un tema su cui ha iniziato a riflettere Petrarca - «I grandi templi vacillano per il lungo deperimento e le rocche già minacciano di cadere per le mura deteriorate... Fra tante miserie solo la maestà vigoreggia invitta e, benché ogni cosa sia rovinata, sarà scolpita per i secoli sugli estremi marmi» - e che poi arriva dritto dritto sino agli illuministi e al neoclassicismo.

E poi certo delle rovine del passato ogni momento storico ci fa un po' quel che vuole, le reinterpreta. Nel culto di un passato da far tornar vivo o, al contrario, da esorcizzare proprio mostrando le rovine come monito di una possibile caduta. Per usare le parole di Chateaubriand, che Schnapp cita proprio in partenza di questa maestosa cavalcata per i continenti e le vestigia: «Tutti gli uomini hanno una segreta attrazione per le rovine. Questo sentimento dipende dalla fragilità della nostra natura, da una segreta conformità fra i monumenti distrutti e la rapidità della nostra esistenza».

La smania di distruggerli i monumenti, di cancellarli, che è cosa ben diversa dal riuso dei medesimi (ideologico o meno), paradossalmente sembra essere figlia della modernità. Della cultura woke ad esempio, che pretende di cancellare questo o quello. Non di spiegare o di contestualizzare, o persino di condannare, ma proprio di abradere. Ma la storia non si lascia cambiare come se fosse un congiuntivo sbagliato, vergato col gessetto alla lavagna. E le rovine sono lì anche per quello. Il libro di Schnapp lo fa capire molto bene. È un'impresa che non può riuscire ai piccoli censori delle statue di Colombo. E nemmeno ai molto più crudeli distruttori dei Buddha di Bamiyan, armati di una versione brutale dell'islam che ama l'ignoranza e la dinamite. Il poeta islamico del IX secolo al Buhturi dedica alle rovine pre islamiche questi versi: «Tutto questo fu costruito in vista di una gioia eterna, ma/ ora è uno spazio di condoglianze e consolazioni./ Merita che io gli dedichi le mie lacrime,/ lacrime di affetto e di rispetto».

Il nome

di al Buhturi e i suoi versi, pieni di umanità (dovrebbe essere la base di ogni fede), sono qui da secoli, come le rovine di cui parla, i distruttori con vernice e tritolo passano molto in fretta, o così preghiamo tutti.

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