"Sono diventata vulcanologa per via dell'adrenalina"

Studiosa e divulgatrice, è convinta che ogni cratere abbia la sua psicologia: "I più tranquilli sono i più pericolosi, come le persone"

"Sono diventata vulcanologa per via dell'adrenalina"

Quando andava a scuola, le maestre avevano suggerito a sua madre: «È una bambina disinteressata, le faccia fare la cameriera da qualche parte». È che, già da quando era piccoletta, cinque anni o giù di lì, Sabrina Mugnos passava le serate alla finestra, a fissare il cielo sopra La Spezia, a chiedersi il perché e il come, a invaghirsi di certi «giochi sacri» che sono diventati, poi, le passioni della sua vita. Cercava risposte, come accade alle «anime inquiete», e così la mattina dopo, in classe, era stanca per mancanza di sonno. Non per mancanza di interesse, come credevano le maestre. Perché di interessi Sabrina Mugnos ne ha moltissimi e, soprattutto, quelli che ha sono mastodontici: l'universo con le sue galassie, lassù, e le montagne, quaggiù, ma montagne molto speciali, che dentro nascondono il magma primordiale. Montagne che devi scalare fino in cima per poi scoprire il loro abisso, un inferno di lava.

Cielo e terra, aria e fuoco, alto e basso, egualmente irraggiungibili e potenti, come gli antichi «elementi», come le forze della natura in cui lei, vulcanologa, classe 1971, si immerge da anni, per uscirne, ogni volta, sempre più curiosa ed elettrizzata.

«Adrenalina pura». Quella che l'ha spinta a esplorare i suoi adorati vulcani in giro per il mondo e per l'Italia in particolare, e a raccontarli in un saggio che non è (sol)tanto un trattato bensì un «Viaggio scientifico e sentimentale» fra i Draghi sepolti del nostro Paese, libro pubblicato dalla casa editrice «Il Saggiatore» del quale parlerà il 18 settembre a Vercelli, dopo averlo presentato, beh, a Stromboli, e come darle torto. «Siciliani e napoletani vivono alle falde dei loro vulcani, con essi hanno un legame potente. È una filosofia di vita: non so se i vulcani condizionino le persone o, in qualche modo, le persone condizionino i vulcani...».

Sabrina Mugnos, com'è che ha deciso di studiare proprio i vulcani nella vita?

«Perché sono focosa anche io. Sono in simbiosi. Sono passionale, istintiva, vulcanica e mi trovo a mio agio nei paesaggi forti. Studio tutto. Questo è il mio dodicesimo libro, mi sono occupata di astrobiologia, vita extraterrestre, archeoastronomia, civiltà antiche, e tanto di astronomia, che è la mia prima passione, in realtà. E sto già scrivendo un nuovo libro sui terremoti».

E i vulcani?

«I vulcani sono un aspetto delle scienze della Terra, che si confà al mio modo di essere, perché io ho bisogno di deserti, di ghiacciai, di aurore boreali, che infatti vado a vedere due volte l'anno, e vedrei anche i tornado. I vulcani sono un fenomeno naturale coinvolgente, che ti ipnotizza. E poi ho sempre fatto trekking e il vulcano è una montagna, una montagna viva, che pulsa, la senti, ne percepisci l'odore e il calore».

Come si diventa vulcanologi?

«Ho preso la laurea in Geochimica a indirizzo vulcanologico a Pisa. Ho fatto la tesi in Tanzania, dove c'è l'Ol Doinyo Lengai, un vulcano dalle lave bianche, l'unico al mondo, sede appunto del dio Engai. A venticinque anni ero più pazza di adesso, così andai a caccia del dio nel vulcano, scesi dopo una settimana».

E dopo la tesi?

«Avrei potuto fare il dottorato, ma non volevo diventare la signora dei vulcani, io sono affamata di tutto, volevo andare in giro per il mondo, avere a che fare con tante cose, certo con le basi, gli strumenti scientifici che mi ha dato un'università come Pisa; ma questi strumenti ho voluto usarli in mezzo alla natura, per tentare di capire, di trovare un senso, un equilibrio. Per questo studio da sempre anche l'astronomia, e in queste sere vado a caccia di comete...».

Che discipline servono a un vulcanologo?

«La matematica, la petrografia, la geochimica: devi conoscere le rocce, perché la struttura del magma si forma in contesti geodinamici, col movimento delle placche. Dimmi che movimento sei e ti dirò che vulcano viene fuori».

I vulcani sono giganti.

«Sì, per la misura d'uomo sì, sono dei bestioni. Sulla Big Island, nelle Hawaii, che ancora oggi sono uno dei luoghi più selvaggi della Terra, c'è il Mauna Loa che è più grosso dell'Everest, oltre quattromila metri sopra e circa cinquemila sotto, talmente massiccio da avere deformato la crosta e averla affossata. Da lontano sembra una collinetta perché è un vulcano a scudo, cioè come uno scudo rovesciato per terra. Quelli disegnati dai bambini, invece, si chiamano stratovulcani».

Per fare il vulcanologo servono anche le gambe?

«Eh sì. Già i 900 metri di Stromboli sono ripidini. Devi essere uno che cammina, con un fisico tosto, ci sono sabbia, rocce. Una volta ho girato uno speciale per la Rai nelle Gole dell'Alcantara, il cameraman e io stavamo appesi penzolanti, lui girava e io parlavo, per fortuna ho arrampicato per anni; poi siamo scesi in acqua, con gli stivaloni e la muta, e l'acqua ghiacciata che ci sbatteva a destra e a manca. Devi essere un po' così, per andare a vedere e poi raccontare questi posti, è una cosa un po' insolita, per una donna, poi, non è certo un ruolo da soprammobile...».

Il suo è un lavoro da maschi?

«È un lavoro da maschi, perché l'80 per cento delle donne è da make-up. Devi essere un po' maschiaccio, però adesso qualche guida donna zaino in spalla c'è, a Geologia eravamo quattro gatte, oggi ci sono più studentesse... Rimane un mestiere in cui ti devi sporcare le mani, ti devi infangare, insomma non tanto frufru».

Perché Draghi sepolti è un «viaggio sentimentale», oltre che scientifico?

«Perché lascio il nozionismo scientifico sullo sfondo e parlo delle persone, dei luoghi, delle credenze, gli stambecchi dell'Etna, i pistacchi di Bronte, Iddu - Stromboli - che borbotta ed è un faro per le barche, chi scala a Muntagna - l'Etna - di notte, il culto della Madonna sotto il Vesuvio, con le chiese piene di ex voto, San Gennaro martire nella solfatara, Goethe e Leopardi che cantano il Vesuvio sterminatore...Parlo degli uomini e delle loro vite alle falde dei vulcani, e di paesaggi meravigliosi».

Perché i vulcani italiani sono così importanti e studiati in tutto il mondo?

«I vulcani italiani hanno creato le tipologie stesse dei vulcani, per cui si parla di attività stromboliana, o vulcaniana, che fu descritta da Mercalli e per esempio c'è anche nelle Ande, o pliniana, che fu descritta da Plinio il Giovane. E sono tra i più studiati non perché belli, ma perché solo intorno al Vesuvio vivono oltre due milioni di persone e quindi, come il Teide a Tenerife, o Yellowstone, o i Campi Flegrei, che sono immersi nella civiltà, vanno monitorati e controllati sempre».

Ha un vulcano preferito?

«Il mio è quello della tesi, in Tanzania, un'avventura incredibile in cui ho rischiato la vita, però sono molto legata anche a Stromboli, un posto romanticissimo, oltre che un laboratorio che ci insegna molto. Del resto ogni vulcano ha la sua personalità, l'Etna, la Etna al femminile è Sua maestà, un colosso, la Signora o la Sorella, o la Mamma, l'Amante... Le parlano la mattina, se potessero la sposerebbero; Stromboli è il fratellino, il borbottone; il Vesuvio è lo Sterminatore leopardiano, silente e apparentemente tranquillo, una montagna ammantata di ottimo vino, che poi ha fatto quel che ha fatto, nel 79 dopo Cristo».

I Campi Flegrei sono davvero così pericolosi?

«Sono nella categoria dei supervulcani, nei quali una eruzione calderica può cambiare il clima dell'intero pianeta, un po' come Yellowstone; questo perché i gas e le ceneri, immersi nell'atmosfera in migliaia di chilometri cubi, vanno ad abbassare la temperatura planetaria e a oscurare il cielo».

Quali sono i vulcani più pericolosi?

«Quelli che per secoli, o per millenni, stanno zitti, un po' come le persone: era un bravo ragazzo, poi gli hanno trovato dei pezzi di cadavere nella valigia... I vulcani che borbottano, come Stromboli, sfogano il loro gas, un po' come una pentola a pressione, e così accade anche a Vulcano, per esempio, che ha lave viscose, pastose, e tanto gas, che si accumula, e quando poi si stappa produce queste botte, tipo cannonate, che a fine '800 hanno spaccato i vetri fino a Lipari: è perché si libera, senza colate ma con tanta cenere, e queste botte che si chiamano bombe a crosta di pane».

Quanto è caldo il magma?

«Dai mille-mille e cento gradi come alle Hawaii, o all'Etna, fino ai 700-800 gradi di quelli più viscosi».

Che sguardo ha un vulcanologo?

«È l'occhio del geologo, una macchina del tempo: lì fuori c'è un mondo di cose che mi parla, un sasso nel fiume mi racconta una storia bellissima».

E qual è la prima cosa che guarda in un vulcano?

«Il colore degli occhi... La forma è la prima cosa e, infatti, il fascino di Stromboli è la sua forma geometrica, da sentinella che si staglia all'orizzonte; o quella del Vesuvio, che domina il Golfo di Napoli; mentre i Campi Flegrei sono una caldera, con la gente che ci vive dentro... La forma è il vestito e, nel caso di un vulcano, l'abito fa il monaco, perché ti dice tanto sull'attività che ha».

Non ha mai paura?

«Hai voglia. In Tanzania ho sentito un'esplosione e poi i lapilli caldi sulla schiena, lo stesso a Stromboli, dove il vento ci ha portato questa pioggia di lapilli; e dopo ti chiedi: e se fossi stata in cima quando c'è stato il parossismo? La paura serve, perché dobbiamo essere guardinghi con la natura, stare attenti che non ci travolga».

L'emozione più forte?

«In Tanzania, a duemila metri, dopo la fatica della salita, sono stata per giorni dentro il cratere attivo con il mio professore, lassù sul tetto della savana, all'Equatore, dove il sole va giù di colpo, e mi chiedevo: tornerò o non tornerò?, mi morderà un mamba?, il vulcano erutterà? E poi alle Hawaii e in Nuova Zelanda, dove ho percorso 21 chilometri in quota in mezzo ai vulcani. Adrenalina allo stato puro».

Com'è sbirciare dentro un vulcano?

«Quando arrivi e vedi il suo cratere e poi guardi nella sua bocca ti si apre un mondo; è come il cielo, è guardare una dimensione non della quotidianità, un magnetismo atavico, come sbirciare nella fucina della creazione, tra le forze primordiali».

Servono precauzioni particolari?

«In Italia è sufficiente un abbigliamento adatto, scarponi robusti con suola alta e gambe coperte, mentre in Indonesia, per esempio, serve la maschera antigas. A Vulcano basta non andare tra le fumarole».

Le eruzioni sono prevedibili?

«Quelle dell'Etna e dello Stromboli un pochino prima. Quelle del Vesuvio sì, lo studio dei gas e della composizione chimica ci dà i segnali premonitori di quando si mette in movimento. Abbiamo fatto passi da gigante, come a Cuba, dove sono state salvate moltissime persone».

Quindi sul Vesuvio ci rassicura?

«Certo, è il vulcano più controllato del mondo, ha stazioni ovunque: se si gratta il naso lo vengono a sapere dappertutto».

Ma lei abiterebbe alle falde di un vulcano?

«Io sì. Conoscendolo, lo farei in maniera assennata».

E dove?

«Non mi dispiace l'Etna, è meno caotico del Vesuvio, è più selvaggio... Sulle sue pendici, in certi punti non c'è nessuno».

Gli italiani amano i loro vulcani?

«Sì, guai a toccarglieli. Non importa se causano guai, con i loro vulcani hanno un legame simbiotico. E ce l'ho anch'io».

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