Ironico, cosmopolita, esordiente con Italo Calvino, avanguardista con il Gruppo '63, amico di Inge Feltrinelli, collaboratore di Repubblica... A leggere giornali e guardar siti è morto l'ennesimo intellettuale progressista. Invece è morto un raro intellettuale conservatore.
Basterebbe leggerlo, Alberto Arbasino, anziché saccheggiare Wikipedia e limitarsi a citare gita a Chiasso e casalinga di Voghera. Alla notizia della sua morte mi sono precipitato allo scaffale della mia libreria che gli compete, ovviamente lo scaffale più alto, fra Giovanni Ansaldo e Pietro Aretino, e purtroppo non ci ho ritrovato Paesaggi italiani con zombi (dove caspita sarà finito?), un titolo del 1998 ahinoi perfetto per questo 2020 di città spettrali. Ho ritrovato invece Un paese senza, edizione del '90. Non me lo ricordavo così destro. «Non solo nel piccolo Libano e nella media Jugoslavia ma nella vasta Unione Sovietica e nell'ampia India tutti i massacri contemporanei scoppiano per conflitti etnici». Trent'anni fa, quando l'Italia era ancora monoetnica e non lo sapevamo, Arbasino già ci metteva in guardia dal multiculturalismo: «Sarete voi i protagonisti dei prossimi conflitti medievali tra Asia e Africa sui marciapiedi ove si beveva gin-and-tonic e adesso ci si accoltella fra le borsette di religioni differenti?». Cosmopolita di notte, nel jet-set, però molto lombardo di giorno, e non solo per la venerazione nei confronti di Gadda, Dossi, Manzoni. Se non si è mai potuto in alcun modo avvicinarlo alla Lega, come invece è accaduto ad altri grandi nordisti quali Giorgio Bocca e Gianni Brera, è più per incompatibilità estetica che politica.
In Un paese senza chiama l'immigrazione massiccia di africani e asiatici, spesso musulmani, col suo vero nome, ossia invasione: «I deliri italiani prossimi deriveranno soprattutto (nella nostra Storia è già capitato) dalle invasioni del Paese, e dai conflitti che hanno più volte provocato anche fra i cittadini». Giusto: in Italia gli sbarchi producono soprattutto guerre civili. O quantomeno lotte intestine. Se è vero che i barconi africani in questi giorni non interessano e dunque, pur continuando ad arrivare, hanno smesso temporaneamente di dividere, è anche vero che si è appena formata una fazione filocinese (da Luigi Di Maio in giù), siccome certi connazionali l'invasionismo ce l'hanno nel sangue. «Sono i complessi coloniali / degli italiani eterni provinciali. / / Invocazioni / continue di intromissioni / e invasioni di stranieri / contro i propri avversari / sul territorio...». Sto virgolettando da Rap 2, il secondo dei due piccoli libri datati 2001 e 2002 in cui l'amante della lirica, l'habitué della Scala, il patito di Maria Callas si lancia, piuttosto a sorpresa, nella poesia civile rappata.
Il risultato è più Flaiano che Fedez, ovviamente. Ma chi l'ha letto l'Arbasino rap? È l'Arbasino che si scagliava contro i «comunprepotenti», «i pacifiviolenti», i politici di sinistra che straparlavano di un'Italia trasformata nel Cile di Pinochet solo perché Berlusconi aveva vinto le elezioni...
Sandro Veronesi adesso si dispiace su Twitter e non ne dubito, vorrei soltanto si sapesse che Arbasino con lui, e con tutti gli altri scrittori firma-manifesti che amano «mostrarsi assolutamente correct / su tutte le cause più select», non c'entrava nulla. Nel mare magnum di Fratelli d'Italia, il lunghissimo romanzo-saggio che ha la statura del capolavoro, ho pescato una sfida alla letteratura impegnata che fa davvero impressione: «Mi arrampico sulle tende, mi attacco ai lampadari, mi prendo a schiaffi dicendomi cattivo! cattivo!» ma per lo svago e il relax preferisco Piccadilly a Buchenwald». A dispetto di qualcuno che esortava così: «Passa un sabbatico a Belsen, non perdere tempo con Salisburgo, dammi retta! Il massacro rende!».
Avrà pure fatto parte (brevemente e lateralmente) del Gruppo '63, di sicuro non ha mai fatto parte del Gruppo '68, e una prova consiste nell'incontro a Francoforte con Adorno assediato dalla contestazione universitaria: il giovane intervistatore parteggia per il vecchio filosofo. Il suo pittore novecentesco preferito era Giorgio De Chirico, non certo Emilio Vedova. La sua divisa era il blazer Caraceni, non certo l'eskimo. Le sue messe (vissute da esteta, non da credente) erano in latino o in greco (a Patmos), non certo post-conciliari coi tamburelli e i «preti che sanno tutto sul Vietnam».
Il suo autore prediletto era Gadda, non certo Gramsci che sebbene muoia prigioniero si lascia dietro «non un inno alla Libertà come i romantici tedeschi ma il progetto di un apparato di intellettuali conformisti e propagandisti».
Da vero conservatore era un pessimista, un realista, un uomo che non nutriva la benché minima fiducia nei giovani (altro che Greta e Sardine), liquidando come «solfe millenaristiche le speranze nelle generazioni future». Fratello Alberto.
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