Che nostalgia per quell'Urss, impero in rovina

Felice Modica

La prima volta negli anni '90, di notte, all'aeroporto di Kiev. Ancora vive la memoria di Chernobyl e, per un occidentale, l'Ucraina, Russia Bianca, è fonte di apprensione. A me fa l'effetto di un pugno nello stomaco: è il biglietto da visita di un mondo distante, qualcosa che al tempo terrorizza e attrae in maniera quasi ipnotica. A Kiev sono sale enormi semideserte, abbaglianti luci al neon, polizia di frontiera con divise e soprattutto cappelli esageratamente grandi. Il controllo fiscale della valigia, il grigio che di colpo s'impone come colore unico. Poi, fino all'hotel, esempio di monumentale architettura sovietica; al buio, la cameriera che mi accompagna fa luce con la torcia. Segue un lungo viaggio su un'auto scalcagnata, senza interruzioni fino in Crimea. Passando dalla Poltava, che ricordo ha dato i natali a Gogol, per la Dnepropetrovska, la Zaporozhia. Perché mai, queste steppe senza fine, dove ancora non stonerebbe un tagliagole, o un «folle in Dio», mi attirano così tanto, pur trasmettendo un senso di sottile disperazione? Quest'effetto me lo fa tutto l'immenso territorio dell'ex impero sovietico, per lo meno, quello che ho visitato, dai cosiddetti paesi satelliti dell'Est Europa, alle Repubbliche baltiche, a Georgia, Azerbaigian, in fondo anche l'Albania dell'immediato dopo Oxha. Per questo capisco perfettamente, riconoscendolo fratello, il giovane scrittore Tino Mantarro, il quale ha addirittura coniato un termine per definire tale sentimento contrastante: Nostalgistan. Così ha titolato il suo nuovo libro (Ediciclo, pagg. 206, euro 15), il racconto di un viaggio in Asia centrale, dal Caspio alla Cina. Il suffisso «stan» è di origine persiana e, come spiega l'autore, è presente nella formazione del nome di molte nazioni asiatiche: Afghanistan, Turkmenistan, Kazakistan ecc. Esso vuol dire «luogo di» o «paese di».

Mantarro ufficialmente ripercorre in Land Rover la via della seta; in realtà, è fortemente attratto dall'estetica della rovina, dalle capitali malandate e dalle ex capitali sovietiche. Attratto dal mondo di chi non si colloca proprio tra gli ultimi della terra, piuttosto tra «quelli che potevano vincere e invece hanno perso». I parcheggiati del pianeta, incastrati dalle giravolte della storia in qualche buco di culo di posto che ha vissuto un passato glorioso, forse un barlume di speranza, e invece vive un presente disperato. Posti che spesso sono solo un vago ideale da raggiungere, un tarlo nella mente, ma in realtà quando li vedi rappresentano una totale delusione. «Capita, quando sono lì, che non mi sento neanche a mio agio e vorrei essere altrove, anche se poi finisco per tornarci, attratto da quest'idea di diverso sviluppo da comprendere».

Come già Kapuscinski in Imperium, racconta la distruzione sovietica del Syr Daria e dell'Amu Darja, fiumi che attraversano tutta l'Asia Centrale e il conseguente annientamento del Mare d'Aral, che dai corsi d'acqua era alimentato.

Descrive la kafkiana burocrazia post-sovietica e, soprattutto, l'avanzata della Cina, che guarda a tutta l'Asia centrale in una prospettiva egemonica, procedendo nell'opera di annacquamento delle identità culturali locali e di costruzione di una nuova Via della Seta.

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