"Drive my car", poesia silente di un confessionale su ruote

Un dramma nipponico sui legami spezzati e sulla liberazione nata dal confronto reciproco, che conquista con lentezza (tre ore di durata, non percepite) e con una discrezione d’altri tempi

"Drive my car", poesia silente di un confessionale su ruote

Drive my car, presentato in anteprima mondiale all'ultimo Festival del Cinema di Cannes dove, depredato della Palma d'Oro, si è aggiudicato il premio per la sceneggiatura, esce oggi nelle sale italiane. Diretto da Ryūsuke Hamaguchi (che quest’anno ha vinto anche l’Orso d’Argento alla Berlinale con “Il gioco del destino e della fantasia”), il film è tratto dall'omonimo racconto di Haruki Murakami presente nella raccolta "Uomini senza donne".

Quello di sedersi in sala, per tre ore esatte, innanzi ad un dramma d’ambientazione asiatica non è certo un invito che possa estendersi alla massa degli spettatori medi, ma sarebbe un errore lasciare che troppe persone si scoraggino di fronte a una così parca descrizione di “Drive my car”. Se vi ritenete amanti del cinema è giusto che diate una chance a questo titolo, un viaggio da cui si esce arricchiti e che non fa mai sentire il peso né dei suoi argomenti, seri, né della sua durata, oggettivamente lunga. Se il film si insinua sottopelle è grazie alla sua sensibilità asciutta; del resto l’essenzialità può essere di dirompente fascinazione. La regia sobria, l’approccio apparentemente distaccato e l’eleganza composta, così come i silenzi carichi, gli intensi primi piani e le parole, neutre e generose ad un tempo: tutto rivela una padronanza assoluta del mezzo cinematografico.

Il film, diviso in tre blocchi narrativi (coi titoli di testa che arrivano dopo un prologo di 40 minuti), racconta di Yusuke Kafuku (Hidetoshi Nishijima), un attore e regista teatrale, che da due anni non riesce a superare la morte della moglie. Sta preparando a Hiroshima una pièce particolare, lo Zio Vanja di Cechov in versione multilingue, con attori e attrici che reciteranno in giapponese, cinese, filippino e anche col linguaggio dei segni. Lungo il tragitto che lo conduce alle prove, l’uomo è affidato per contratto, dalla propria compagnia, a una giovane e silenziosa autista di nome Misaki (Tôko Miura). I chilometri quotidiani porteranno i due ad entrare a poco a poco in relazione. Tra gli spazi deputati all’allestimento teatrale e l’abitacolo della macchina di Kafuku, una Saab Turbo rossa, maturano confessioni private tra i personaggi. La messa a nudo di vecchi traumi (c’è chi ha perso una figlia oltre alla moglie, chi una madre) servirà a rielaborarli, a cementare nuove alleanze affettive e a partorire un nuovo sé, aperto al domani.

“Drive my car” è un film che sussurra la complessità umana con fare intimo e gentile.

L’incipit allude a come il sesso, avendo per compimento uno stato alterato di coscienza, conduca a vette inusitate d’energia creativa (non in senso biologico). Il mistero del femminile è qui incarnato da una donna, appunto, misteriosa che se ne va in maniera repentina e condanna quindi il vedovo a convivere con quanto di taciuto tra loro. Il secondo atto, relativo al casting e alle giornate di lettura di gruppo del copione, indaga l’arte della recitazione e mostra come la finzione e la realtà si specchino l’una nell’altra contaminandosi a vicenda. Infine, nella terza parte, c’è il superamento di ricordi ingombranti. Qui accoglimento ed ascolto sono le due parole chiave attraverso cui si creano i legami. Non solo. Viene svelato come la parola sia l’antidoto alla prigionia autoimposta e come la condivisione sia il modo per capire se stessi e smettere di seguire strade già percorse.

“Drive my car” vive di conversazioni quiete, piene di riverberi preziosi e, alla lunga, rivelatori.

Fluente in maniera incisiva ma rispettosamente pudico, è un film che stilizza moti del cuore universali: tormenti, passioni e sensi di colpa con cui gli esseri umani sono avvezzi ad inchiodarsi al proprio passato.

Elogio del tatto e della misura, oltre che riflessione sull’eloquenza del silenzio, “Drive my car” sa sedurre con mitezza e garbo, in maniera lenta ma chirurgica.

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