Raggiunta telefonicamente nella sua casa di Brescia, Umberta Gnutti Beretta ricorda con affetto Christo, il primo incontro, le settimane che anticiparono l'apertura di The Floating Piers sul lago di Iseo, l'entusiasmo di vedere coinvolte così tante persone. Era l'estate del 2016 e quel meraviglioso pezzo d'Italia sembrava davvero il centro del mondo. Imprenditrice, mecenate, collezionista, unisce la passione per l'arte ad attività di charity. Un curriculum di studi e formazione internazionale, tra la Svizzera e Londra, che mai cela un forte bisogno di tornare alle radici della sua terra.
Signora Beretta, una primavera triste per l'arte. Se ne sono andati Germano Celant e Christo, ovvero i due protagonisti principali dell'impresa Floating Piers. Come ricorda il primo vostro incontro?
«Ricevetti la telefonata di Celant che mi chiese di andare a casa sua per incontrare un artista e parlare di un progetto, senza svelarmi altro. E lì conobbi Christo. Senza indugiare mi raccontò la sua idea di costruire il camminamento dalla terra al lago, che inizialmente mi sembrò folle. Era il 2014, due anni dopo, invece, accadde...»
Come fu l'impatto con uno dei più grandi artisti del nostro tempo?
«Christo era molto concentrato sul progetto che mi illustrò tecnicamente nei minimi particolari. Sull'iPad del nipote Vladimir mostrò i disegni e i progetti della lunga passerella sul lago di Iseo che si concludeva all'Isola di San Paolo, di proprietà della nostra famiglia. Abbiamo bisogno di voi, mi disse. Sapeva di essere anziano e di avere ancora diversi progetti in testa da realizzare in una lotta contro il tempo, ad esempio la Mastaba (installazione di oltre 7.500 barili di petrolio colorati nel lago di Hyde Park a Londra aperta nel giugno 2018, ndr). Non ci fu bisogno d'altro per convincermi».
E poi è nata un'amicizia...
«In un progetto così ambizioso si viene completamente assorbiti al punto da accantonare la normale quotidianità. Mio marito Franco e io abbiamo accompagnato Christo a incontrare amministratori, politici, tecnici, aziende, personale, ci siamo occupati insieme a lui di arrivare alla realizzazione di un'opera che, come di consueto, l'artista finanzia interamente da sé con la vendita dei propri lavori. E poi ho seguito da vicino la mostra Water Project al Museo di Santa Giulia a Brescia, che anticipò in aprile l'evento per poi chiudersi in settembre».
Dopo il 2016, vi siete rivisti?
«Sì, alcune volte, proprio a Londra per Mastaba, quindi a Miami. Da circa un anno non ci incontravamo».
Di norma l'arte contemporanea è considerata un linguaggio specialistico che non riesce ad attrarre un pubblico molto vasto, e invece in Franciacorta in due settimane arrivarono oltre 1 milione e 200 mila persone. Che spiegazione si è data di quell'incredibile e imprevisto successo?
«Christo, con sano ottimismo, pensava a 30/40 mila presenze al giorno, che a me sembravano già tantissime. E invece furono più di 100mila, con lunghe code, tempi di attesa sotto il sole, Instagram che si apriva sul giallo delle passerelle e proprio i social sono stati fondamentali nel creare l'effetto moltiplicatore. Bisognava esserci, insomma».
A pensarla oggi, un'impresa del genere appare davvero impossibile...
«Nel breve purtroppo sì. Quel desiderio di condivisione per cui ciascuno aveva il proprio motivo per passeggiare su Floating Piers sembra lontanissimo. Molta gente stava attraversando un'opera d'arte contemporanea senza saperlo e in tanti aveva prevalso la sensazione di vivere un'esperienza. Christo teneva molto che il suo fosse un evento anche popolare».
Lei non è nuova a interventi finanziari a fianco dell'arte, dal classico il restauro di opere del Museo Poldi Pezzoli - al contemporaneo. Si considera una nuova mecenate?
«Mi piace partecipare ai progetti nel momento in cui si vanno costruendo, non finanziare a cose fatte. Per Christo non c'era bisogno di economia, ho comprato un'opera per la mia collezione ma non è rilevante. In altri casi, ad esempio per il Padiglione Italia 2017 curato da Cecilia Alemani, ho sostento il suo lavoro mentre si costruiva e non a giochi fatti, insomma mi interessa soprattutto il backstage».
Brescia, la sua città, è stata tra le più colpite dalla pandemia. Ora ci sarà bisogno di grandi forze per rialzarsi e intanto la società risponde con la candidatura a capitale della cultura condivisa con Bergamo nel 2023. Quali sono i suoi pensieri a proposito, anche nel ruolo di membro del consiglio direttivo della Fondazione Brescia Musei?
«È davvero difficile pensare oggi a un modo efficace di fare arte dopo il lockdown.
C'è il rischio che molte regole cambino, a cominciare dall'affluenza del pubblico che sarà contenuto nei numeri, e allora può valer la pena di pensare a un'arte diffusa sul territorio, che incontri per strada, un'arte che esca dai musei e dalle fondazioni per espandersi in altri luoghi fisici della comunità».
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