Così la (in)giustizia fascista divenne giustizia repubblicana

Chi era ai vertici della magistratura sotto il regime restò al proprio posto dopo la sua caduta. Ecco perché

Così la (in)giustizia fascista divenne giustizia repubblicana

S'immagina che la Repubblica antifascista, nata dalla resistenza partigiana - in realtà, nata dall'intervento militare delle forze anglo-americane - nulla ebbe a che fare con il precedente regime autoritario del ventennio fascista. Naturalmente, s'immagina male. La storia, infatti, soprattutto la nostra storia nazionale, più simile a un arabesco che a una linea retta, come diceva bene Flaiano, non si lascia tagliare in due come una mela o dividere in modo netto in bene e in male e tende, invece, alle sfumature e alle zone grigie.

Si prenda, ad esempio, un caso significativo sul quale negli ultimi tempi gli storici, potendo finalmente accedere agli archivi, stanno facendo luce: la magistratura. Nel passaggio dal fascismo alla democrazia, molti giudici furono sottoposti all'esame o procedimento epurativo per capire se fossero adeguati o meno a servire le nuove istituzioni democratiche. A passare al vaglio dell'epurazione furono i magistrati più importanti d'Italia, i giudici maggiormente compromessi con il fascismo, coloro che prestarono servizio nel Tribunale speciale per la difesa dello Stato, nel Tribunale della razza, nella Repubblica di Salò. Risultato? Dopo essere passati indenni attraverso il processo epurativo, alcuni di questi magistrati erano poco tempo dopo al ministero, ai vertici della Corte di cassazione, alla presidenza delle Corti d'appello, tra i membri della Corte costituzionale. Possibile? Non solo è possibile ma è vero, ossia è la storia e in particolare la storia italiana che è caratterizzata da quella che Claudio Pavone, delineando le «origini della Repubblica italiana», chiamava, agli inizi degli anni Settanta, «continuità dello Stato». Oggi su questo punto specifico e cruciale del destino della magistratura a cavallo tra fascismo e democrazia ritornano Antonella Meniconi e Guido Neppi Modona che curano un volume collettaneo, ricco di documentazione e che fin dal titolo non lascia spazio né alla fantasia né alle interpretazioni: L'epurazione mancata. La magistratura tra fascismo e Repubblica (il Mulino, pagg. 344, euro 32).

Negli anni Novanta del secolo scorso, sulla rivista Clio, fu pubblicato il saggio del compianto Pietro Saraceno. L'epurazione mancata, dopo l'Introduzione dei curatori, si apre proprio con questo illuminante saggio così intitolato: I magistrati italiani tra fascismo e repubblica. Brevi considerazioni su un'epurazione necessaria ma impossibile. Un titolo, come si può capire, che si porta dietro una contraddizione che riflette - questo è il punto - la contraddizione della realtà italiana o la sua complessità o «il guazzabuglio della storia», per dirla con Manzoni e, insomma, l'arabesco su richiamato.

L'epurazione doveva essere sì necessaria, perché occorreva un cambio di rotta, di uomini, di idee, ma risultò alla fine impossibile, perché fu annunciata ma non attuata. In particolare, restando sul terreno specifico dell'epurazione dei magistrati compromessi con il fascismo, ci si accomodò con un compromesso per due ragioni: primo, perché mancavano già molti magistrati per ricoprire gli organici e se si fosse fatto ricorso ad una massiccia epurazione non ci sarebbero stati gli uomini per portare avanti la ordinaria amministrazione giudiziaria; secondo, perché proprio nel caso del procedimento epurativo della magistratura i giudici si trovarono ad essere contemporaneamente epuratori ed epurabili. Un vero e proprio cortocircuito che si riassume nella formula classica «chi epura chi?».

Infatti, se era necessario ricorrere ai magistrati per epurare in modo imparziale i quadri amministrativi statali, era obbligatorio epurare la stessa magistratura affinché fosse credibile e rispettabile. Ma ad epurare i magistrati furono gli stessi magistrati che divennero di fatto e di diritto i giudici di sé stessi: «L'epurazione della magistratura era quindi prioritaria - si legge nel saggio di Saraceno - ed il fallimento di questa operazione avrebbe portato facilmente al fallimento generale di tutto il processo di epurazione».

L'epurazione mancata si rivela essere l'epurazione impossibile. Un esempio: su 37 presidenti e procuratori generali della Corte di Cassazione e delle Corti d'Appello in carica al momento della Liberazione, soltanto 5 furono colpiti da provvedimenti di collocamento a riposo validi e non revocati. Come si può capire, si tratta di un risultato talmente minimo da essere nullo e che annullò la possibilità stessa di epurare alcunché. Il libro procede per settori - il Tribunale speciale, le leggi antiebraiche, i giudici della Rsi - e utilizzando l'accesso agli archivi prova a ricostruire in maniera analitica la storia dell'epurazione mancata magistrato dopo magistrato.

Il caso del giudice Carlo Alliney, che fu capo di gabinetto di quel fanatico antisemita di Giovanni Preziosi, è significativo: Alliney svolse - diremmo oggi - attività di «consulenza legislativa» per inasprire la legislazione

antiebraica, ma dopo la fine della guerra non subì conseguenze e nel 1962 fu promosso consigliere di Cassazione e nel 1968 fu nominato presidente di Sezione della Corte di Appello di Milano. Questa è la nostra storia. Di tutti.

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