«Che cos'è un uomo, che di lui ti ricordi?» dice il Salmo. Cos'ha di così grande un piccolo uomo, da essere un ricordo incessante di Dio?
Parlare di don Giussani è come parlare dell'Oceano Pacifico. La metafora non è casuale. Tutto quello che si può dire è sempre una piccola parte dell'argomento, una sfumatura.
Ma Dio - la Bibbia lo insegna - si rivela nelle sfumature. Don Giussani ci ha insegnato che le sfumature sono l'ombra della Creazione, qualcuno direbbe: l'eco del Big Bang. Lui usò un'espressione, in proposito, che mi insegue da mezzo secolo: «qualcosa che viene prima». Pensate ai capolavori di Michelangelo, Leonardo, Tiziano, Caravaggio, a Dante e a Leopardi: c'è qualcosa di enorme che alcuni uomini sanno prima di mettersi a fare quello che devono fare. Questo «prima» è la sfumatura, il «di più» che impedisce ai conti di tornare, alla mente di pacificarsi una volta per tutte, e permette al genio di mettersi al lavoro.
Dell'uomo che fu don Giussani sappiamo quasi tutto. Il suo carattere focoso, la sua passione per il bello, la sua inquietudine continua. Alberto Savorana, svolgendo un lavoro che ha dell'incredibile, ha scritto su di lui la più ricca delle biografie possibili.
Un uomo, un uomo come tutti noi. Figlio di una famiglia povera (ma non poverissima) di Desio, mamma cattolica e papà socialista, tutti con la passione per la musica. Ragazzino come tutti, solo dotato di un'intelligenza speciale. Il ragazzo deve studiare, dicono tutti, ma studiare costa. Fa ridere pensare che entrò in seminario a Venegono e divenne prete grazie alla figlia di Anna Kuliscioff (la fondatrice del Partito Socialista).
Di sé don Giussani ha parlato relativamente poco. Episodi scelti, dove protagonista non era mai lui: era sua madre, erano tre ragazzi all'uscita dalla scuola, era un collega ateo, era un dizionario di greco, due fidanzatini al chiaro di luna, e così via.
«Sono un gran poveraccio», disse nel 1976 a Robi Ronza. «Capisco che Dio mi ha fatto tanti favori nella vita: mi ha fatto vedere, sentire e incontrare una vivezza di fede, e di vita di Chiesa, che è veramente grande; e alla luce di tutto questo, mi avvedo di essere stato incoerente e ingeneroso. Ma non riesco a non essere entusiasta di ciò che Dio m'ha fatto pensare, sentire e incontrare».
Un anno prima che morisse l'ho sentito dire: «Io sono solo un frammento di tempo e di spazio». Un frammento, sì, una sfumatura del creato, a cui accadde qualcosa di enorme, che in qualche modo doveva essere restituito al mondo.
Se mi chiedete cosa mi ha dato l'incontro con don Giussani posso rispondere: tutto. Grazie a lui ho la vita che ho, e che non cambierei con nessun'altra, anche se mi offrissero il Premio Nobel: gli amici di una vita, la famiglia che ho avuto, gli incontri che ho fatto, e che hanno determinato la mia posizione nel mondo, il mio lavoro, le mie relazioni, insomma, il mio destino, così come si è svolto in sessantasei anni, di cui cinquanta in compagnia di lui e della storia che - senza che lui l'avesse mai progettato - si sviluppò attraverso di lui.
Eppure questo «tutto» potrebbe essere niente. Cosa importa avere avuto questi amici e non altri, questo lavoro piuttosto che qualcos'altro? Se il destino si riduce a una biografia come tante altre, cosa importa?
Ma il giorno, ecco, il giorno, l'ora, l'istante in cui lo incontrai attraverso il viso e le parole di chi lo aveva conosciuto: questa è un'altra storia.
Era il 1971, frequentavo il ginnasio del mio paese. L'eco del '68 era vicina e io volevo essere rivoluzionario, ma non riuscivo a fare miei i discorsi del '68. Non riuscivo a aderire del tutto a quelle parole, a quegli slogan, a quel modo di intendere la vita, per aderire alla quale avrei dovuto dimenticare qualcosa di me, e io non volevo.
Una sera fui invitato a un incontro tra ragazzi dove sentii parlare di Gesù Cristo. Io avevo chiuso con quelle cose, ma quel modo di parlare di Gesù Cristo mi disturbava, mi lasciava irrequieto. Litigai, opposi le mie ragioni, ricevetti risposte che non capivo. Poi, mentre tornavo a casa nella prima nebbia novembrina rimuginando tra me, mi resi conto di una cosa che mi spaventò: che non avrei mai più potuto fare a meno di quello che avevo sentito quella sera, tra quei ragazzi antipatici. La prima reazione non fu di entusiasmo ma di orgoglio e di rabbia, e dentro la rabbia una consapevolezza: lì c'era quello che mi mancava.
Io a quel tempo non andavo più a messa, non credevo in Dio e del Nazareno era rimasto un mito, un racconto. Eppure quella sera mi fu chiaro che proprio quel Gesù Cristo che si era ridotto in me a una figura ideale, come «Che» Guevara, era la risposta alla mancanza che da tanto tempo sentivo in me, e che mi impediva di aderire con entusiasmo a quei programmi rivoluzionari che, pure, mi affascinavano.
Ciò che accadde a me quella sera in realtà era accaduto a tanti, in quelli che stavano lì con me, nello stesso don Giussani, e poi su su, di secolo in secolo, fino a quel lontano pomeriggio in cui due pescatori di nome Giovanni e Andrea, scesi per caso al Giordano, videro Gesù e lo seguirono. Era avvenuto un incontro, un incontro vero, fisico. Così diventai cristiano.
Giussani non si riteneva il fondatore o l'inventore di niente. Non molto tempo prima che se ne andasse lo sentii dire: «Non mi è mai venuto in mente di fare CL, e non mi viene in mente nemmeno adesso». Non fece della teologia, non propose nessuna tesi particolare. Il dono che aveva ricevuto (quello che in teologia si chiama Carisma) - così disse lui - era di natura educativa, comunicativa.
Dobbiamo ricordare a questo proposito le circostanze in cui, nel 1954, questo giovane promettente teologo rinunciò a una luminosa carriera scientifica per dedicarsi all'insegnamento della religione.
A quel tempo le chiese erano piene e le associazioni cattoliche giovanili erano al massimo del loro fulgore, ma il nesso tra la fede e la vita era smarrito, e Giussani fu uno dei pochi a rendersi conto del vuoto che si nascondeva sotto questa maschera fastosa. Non fu il solo. Nello stesso anno don Calabria (oggi S. Giovanni Calabria) ne scrisse con gli stessi toni al card. Schuster a proposito del clero. Insomma, don Giussani non era un visionario.
A Giussani più che il clero interessavano i giovani: non perché erano giovani ma per l'emergere violento a quell'età (proprio come era accaduto a me) delle domande più importanti, a cui il mondo cattolico di quel tempo non sapeva più dare risposta. In che modo la fede che professavano poteva dare forma alla loro vita, contribuire allo sviluppo della loro personalità umana?
Per questo si fece insegnante di religione, dedicandosi corpo e anima a un gruppo di ragazzi che per molto tempo fu esiguo: poche unità, poi poche decine. La sua non era ostinazione, ma soltanto obbedienza a un mandato che aveva ricevuto, perché nulla di quanto aveva ricevuto era suo, tutto era per il mondo, per la vita dei suoi simili. Lui si limitò, con umiltà, a dire di sì.
Vorrei concludere con una nota personale. Benché si sia dedicato ai giovani, benché abbia speso parole importanti sulla politica e nonostante l'importanza centrale della cultura nella sua impostazione educativa, io credo che il cuore della sua azione non fossero né i «giovani» né la «politica» né la «cultura» né alcuna altra categoria sociale o ideologica.
Per don Giussani la grande scommessa del cristianesimo si giocava (si gioca) al livello della vita adulta. Un'educazione cristiana è in grado, nel Terzo Millennio, di generare uomini adulti? Uomini capaci di affrontare i drammi e le responsabilità della vita - dal lavoro quotidiano alla guida di un Paese - alla luce della fede ricevuta? Uomini capaci di rispondere al bisogno di verità che c'è in loro e nei loro simili? Uomini - diciamola tutta - per cui una vita cristiana non è una vita in tono minore ma, anzi, una vita piena, bella e avventurosa?
Già. Ma gli uomini hanno davvero voglia di essere felici?
È la domanda che Gesù Cristo pose, prima della sua dipartita: «Quando il Figlio dell'uomo tornerà troverà ancora la fede sulla
terra?». Il lascito di Giussani è, oggi, questo: non tanto i risultati ottenuti, o gli errori commessi, ma l'inquietudine, lo struggimento affinché la fede resti come possibile risposta a un'umanità sempre più sola e spaesata.
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