Nel 1947 Manlio Brosio, in procinto di recarsi a Mosca come ambasciatore, si rivolse a un giovane studioso antifascista poco più che trentenne, Franco Venturi, proponendogli di seguirlo come addetto culturale dell'ambasciata italiana nella capitale dell'Unione Sovietica. Venturi (1914-1994), che conosceva il russo e che era già stato in Urss nel 1936, accettò volentieri e lo seguì.
A Mosca Venturi, oltre a svolgere compiti di natura politico-diplomatica, cominciò a frequentare, pur con qualche difficoltà e superando non pochi ostacoli burocratici, archivi e biblioteche e si dedicò alla storia e alla cultura russe. Da quella esperienza venne fuori Il populismo russo (Einaudi, 1952, riproposto da Mimesis nel 2021), una delle opere più belle e significative della storiografia italiana, da sempre non particolarmente attenta al mondo russo e slavo: un'opera che ricostruisce con finezza la vicenda del movimento populista partendo dalle biografie intellettuali dei «padri» o maîtres à penser dello stesso - Herzen, Bakunin, Cernysevskij - per giungere alla scelta della lotta armata e del terrorismo come strumento per abbattere l'autocrazia.
Per quanto ancora giovane all'epoca della sua destinazione diplomatica a Mosca, Venturi poteva vantare già un importante curriculum soprattutto come politico. Figlio del grande storico dell'arte Lionello, uno dei pochi che non avevano voluto prestare giuramento di fedeltà al regime, aveva studiato in Francia alla Sorbona (dove ebbe fra i docenti storici illustri come Pierre Renouvin e Charles Diehl), aveva stabilito grazie al padre contatti con grandi intellettuali come Benedetto Croce e Gaetano Salvemini e si era entusiasmato per gli scritti di Piero Gobetti. Proprio Gobetti, per inciso, gli aveva fatto conoscere due filosofi, Alberto Radicati di Passerano e Francesco Dalmazzo Vasco, all'origine del pensiero illuminista italiano, cui egli avrebbe dedicato poi alcuni saggi. E proprio dell'illuminismo aveva, da subito, colto la dimensione modernizzatrice e democratizzante e il carattere di ideologia laica che avrebbe dovuto rappresentare un ponte fra la concezione liberale e quella democratica, ovvero democratico-sociale, dello Stato.
Il suo amore per la politica si era sviluppato parallelamente all'interesse per la storia e aveva trovato modo di esprimersi nella militanza in Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli, prima, e nella Resistenza, poi, dopo aver trascorso anni nelle carceri franchiste e al confino fino alla caduta del fascismo. Dopo l'8 settembre aveva aderito al Partito d'Azione e aveva contribuito alla nascita delle prime formazioni partigiane operanti in Piemonte. Dopo il rientro in Italia, all'indomani della sua esperienza in Russia, Venturi si dedicò principalmente, appoggiato da Federico Chabod, alla ricerca storica e alla carriera accademica, pur non abbandonando il suo impegno civile e politico come dimostra la bella e simpatetica biografia di Adriano Viarengo intitolata Franco Venturi, politica e storia del Novecento (Carocci, 2014).
L'interesse storiografico di Venturi si concentrò, oltre che sul populismo russo e sul movimento rivoluzionario, soprattutto sull'illuminismo, culminando nella stesura di Settecento riformatore, un'opera monumentale articolata in cinque volumi e sette tomi che rappresenta tuttora un punto di riferimento ineludibile per gli studiosi del periodo e che giustamente è considerata, con il suo approccio di storia intellettuale intrecciata con la storia politica, uno dei capolavori della ricerca storica. Si tratta di un affresco ineguagliabile per bellezza di scrittura, ampiezza di indagine ed equilibrio interpretativo: un affresco che prende le mosse dallo studio dei riformatori italiani, a cominciare da Muratori e Beccaria, operanti negli anni Trenta del Settecento per giungere fino alla Rivoluzione Francese, puntando soprattutto sulla «circolazione delle idee» riformistiche nell'Europa settecentesca.
Una selezione particolarmente significativa di saggi di Venturi è contenuta nel volume Scritti sparsi (Aragno, pagg. 476, euro 30) curato da Guido Franzinetti ed Edoardo Tortarolo, pubblicato per iniziativa della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. I testi danno conto degli ambiti tematici frequentati dallo studioso - l'età dell'illuminismo, la storia della Russia e dell'Urss, la storia della storiografia attraverso suggestivi profili di «storici e maestri» - ma non tralasciano neppure di richiamare il suo impegno civile per la costruzione di una «società fondata sulla ragione» e sul riformismo democratico.
Il volume si apre con un saggio intitolato La circolazione delle idee che riporta l'intervento di Venturi al Congresso di storia del Risorgimento del 1953 e che sintetizza mirabilmente il suo pensiero sulla originalità dell'illuminismo italiano rispetto a quello francese e sul rapporto con il Risorgimento e, in particolare, con le sue origini. Contrario all'idea che il Settecento italiano dovesse essere visto, come invece facevano molti studiosi all'epoca, quale una sorta di preparazione al Risorgimento, egli era convinto che si dovesse adottare una prospettiva non più nazionale, ma europea. Il suo approccio era, come disse, «di storia delle idee, di circolazione degli ideali politici e sociali, di formazione delle mentalità e delle opinioni pubbliche»: un approccio, insomma, di storia globale che rifiutava l'utilizzazione di categorie come, per esempio, quella di «giacobinismo»: e non a caso egli ebbe modo di criticare, proprio in questo saggio, le posizioni di Gramsci sul giacobinismo come categoria storiografica.
Essenzialmente storico delle idee, pur se convinto che non si dovesse tralasciare lo studio degli effetti della «circolazione delle idee» sui progetti riformatori e sugli stessi avvenimenti politici e militari, Venturi non poteva accettare le posizioni di quegli storici marxisti che pretendevano di ridurre la vita intellettuale a riflesso della struttura economico-sociale; e lo sottolineò in più occasioni anche di fronte ai colleghi russi. Del resto, a riprova della sua diffidenza nei confronti del materialismo storico e delle sue conseguenze dal punto di vista storiografico, basterebbe leggere il bel profilo, riportato negli Scritti sparsi, dedicato a un grande studioso inglese, sir Lewis Namier, il quale si autoproclamava «conservatore e tory» e che, come Gaetano Salvemini, aveva «il gusto di buttar giù tutte le mezze verità, le affermazioni approssimative» spinto da «una paradossale, talvolta sarcastica passione per la realtà storica».
L'«amore per la verità» che Franco Venturi attribuiva a Namier era, in fondo, quello che guidava lui stesso in una ricerca storiografica che rifiutava ogni certezza.
In una lunga e tarda intervista autobiografica - nella quale si lasciò andare anche a giudizi sui politici contemporanei, da Ugo La Malfa a Bettino Craxi, rivelando di votare per i repubblicani - disse: «il mestiere dello storico è quello di dubitare delle soluzioni, delle realtà, delle conoscenze che abbiamo di una realtà storica qualsiasi e di rinnovarla attraverso nuovi studi e nuove ricerche». Che è, proprio, quanto ha sempre fatto lui, Franco Venturi, anche a costo di essere bollato come «seminatore di dubbi» o «maestro di inquietudine».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.