Huppert e Aimée, regine sempreverdi della scenaTeatro Due spettacoli «paralleli»

Una ha da poco varcato la soglia critica dei 60 anni, mentre la seconda con 80 primavere e passa sulle spalle ignora come la collega l'inesorabile tempo che passa. Eppure sia mademoiselle Isabelle Huppert che Anouk Aimée, facendosi beffe degli insulti del tempo, sono in questa estate 2014 la maggior attrazione del Festival di Spoleto. La prima con un testo di lacrimosa empatia come Love letters del pluridecorato Gurney che narra l'odissea sentimentale di una coppia occupata a rileggersi prima di tutto per se stessi, e in via subordinata per il pubblico, i messaggi amorosi come le missive dense di patetici rimorsi che si sono spedite nel tempo. Mentre la seconda, tuttora enfant terrible per eccellenza del cinema d'oltralpe, ha scelto addirittura il Divin Marchese. Per presentarsi al pubblico in un reading dove alterna alla vittima Justine, sempre perseguitata dal destino avverso che la sovrasta, la spudorata Juliette apostola del vizio all'ennesima potenza.
Di pomeriggio le si vede a braccetto a passeggio per la città vecchia dove passano il tempo guardandosi attorno. Sia pure col distacco e la parsimonia di due turiste colte. Dove alle interviste ci si sottrae con garbo ma non alle impressioni colte a volo quando qualcuno, senza interpellarle professionalmente, si accosta a loro parlando di cinema. Che è la passione di entrambe anche se Anouk da anni è assente dallo schermo. Perché, dice lei, «ci son ben pochi ruoli adatti a una donna della mia età e i tempi di Un uomo e una donna ormai sono lontani». Semmai le piacerebbe, confida, dedicarsi a un cabaret intellettuale com'era, ai bei tempi, La rose rouge. La piccola sala sulla Rive Gauche animata da Nikos Papatakis, il suo primo marito «dove si faceva ironia tagliente senza dimenticare le canzoni alla moda e il sarcasmo sulla recitazione imposta dalla Comedie Francaise». Mentre Isabelle, più concreta e positiva che mai, punta una lancia contro l'imbarbarimento della regia che ignora gli interpreti preferendo concentrarsi sulla scenografia e gli effetti speciali. A eccezione del suo amico Warlikowski, il polacco più francese che lei abbia mai conosciuto, che un anno fa la diresse, in jeans e maglietta da ciclista, nel Tram che si chiama desiderio modificando il finale di Williams.
Entrambe dicono poi di essere fanatiche più del dialogo o monologo che fa leva sulla lettura che sullo spettacolo vero e proprio. A tutto vantaggio dello spettatore che ha l'obbligo di sentirsi coinvolto non tanto dal divo di turno ma dall'attore che lo chiama in causa, chiedendogli, attraverso il testo che declama, la sua opinione su ciò che dichiara il personaggio. «Come se noi interpreti fossimo gli interlocutori cui sente il bisogno di affidarsi per discutere i problemi del giorno».

Vuoi attraverso Sade che fa a pezzi il clero e le religioni predicando un nichilismo che ancor oggi fa paura o, come dice Anouk, suscitando ancora una volta il problema dell'amore che unisce o spesso disgrega la coppia, «che resta comunque il solo baluardo contro la disperazione».

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