"Io c'ero e vi svelo cosa accadde la notte del golpe Borghese"

Agente della rete Gehlen, fu un protagonista nel tentativo di colpo di Stato del dicembre 1970. A 90 anni, racconta tutto

"Io c'ero e vi svelo cosa accadde la notte del golpe Borghese"

Adriano Monti, nome in codice: «Siegfried». Medico chirurgo, di Rieti. Oggi ha 90 anni. L'anticomunismo, insieme al giuramento d'Ippocrate, sono la sua fede più forte.

A 14 anni e mezzo, falsificando un documento, si arruola nelle Waffen SS. Dopo la fine della guerra viene reclutato dall'Organizzazione Gehlen, la rete di spionaggio voluta dagli Stati Uniti - e che aveva a capo un ex colonnello della Wehrmacht, Reinhard Gehlen - per contrastare l'Unione Sovietica. Un'organizzazione di intelligence indipendente, fiancheggiatrice della CIA. Da allora ha operato per decenni sotto copertura, dalla Guerra dei Sei giorni ai conflitti dell'Africa Nera fino al fronte dei Balcani, attraversando in incognito, ma come pedina chiave, anche i nostri anni di piombo. Ora ha consegnato parte delle sue memorie al libro Il Golpe Borghese (Luni), con un'introduzione dello storico Giuseppe Parlato, in cui racconta, dal punto di vista di un protagonista, cosa accadde in Italia la notte tra il 7 e l'8 dicembre del 1970, cinquant'anni fa esatti.

Adriano Monti: Lei fu il tramite tra gli ambienti in cui maturò il golpe e gli Usa di Richard Nixon per capire se Oltreoceano era gradita o meno una svolta autoritaria in Italia. Giusto?

«Esatto: all'epoca gli amici che mi coinvolsero nell'operazione conoscevano le mie relazioni internazionali. Gli ero utile per sapere cosa pensavano i servizi segreti americani e la segreteria di Stato su un possibile golpe. Io avevo contatti con Ugo Fenwich, rappresentate del Partito repubblicano a Roma, un ingegnere della Selenia. Lui mi fece incontrare Herbert Klein, di origini tedesche, collaboratore di Henry Kissinger».

Quando dice i «miei amici», chi intende?

«In particolare Luigi Solidati Tiburzi, un magistrato della Corte dei Conti. Fu lui a presentarmi Junio Valerio Borghese, il Comandante; e poi il generale Battistini, che era stato comandante dei Lancieri di Montebello».

Andiamo avanti. Cosa le dissero i suoi referenti americani a proposito del piano?

«Klein mi disse che doveva riferire a Kissinger. Intanto avrei dovuto incontrarmi con Otto Skorzeny, il mio referente dentro la rete Gehlen per il Medio Oriente. Io partii per Madrid e Skorzeny mi fece aspettare un giorno. Poi mi comunicò che gli Stati Uniti erano favorevoli al golpe, ma solo a una condizione: che il capo del nuovo governo fosse Giulio Andreotti. La stessa cosa me la riferì il giorno successivo Klein, anche se lui mi aveva anticipato che mi avrebbe fatto tre nomi; invece fece solo quello di Andreotti».

Otto Skorzeny: austriaco, lunga cicatrice sul volto, Waffen-SS, partecipò alla liberazione di Mussolini dalla prigionia del Gran Sasso nel '43...

«E che dopo la guerra, come molti ufficiali nazisti, divenne un uomo chiave della rete Gehlen. Skorzeny era il referente per il Medio oriente, ed ebbe un ruolo di intermediario nella preparazione del golpe Borghese».

È corretto dire che fu più un golpe bianco che un golpe nero? È vero, nasce da Borghese e dal Fronte Nazionale, ma doveva sfociare in un governo autoritario «centrista», non di estrema destra.

«È corretto. Infatti l'indicazione che arrivava dagli Stati Uniti era che Andreotti diventasse il garante democratico del nuovo corso, perché il governo, anche se militare, avrebbe dovuto indire le elezioni, in un nuovo clima, entro due anni. Questa era la regola stabilita dalla Segreteria di Stato e dai servizi segreti americani».

Elezioni da cui doveva essere escluso il Pci.

«A sinistra potevano esserci solo liste dei socialisti, ma non legate all'Urss».

Queste le premesse. Ora mi dica: cosa accadde quella notte di cinquant'anni fa?

«Le racconto quello ho potuto ricostruire nel corso degli anni, pezzo dopo pezzo. Luigi Solidati Tiburzi mi disse che quella notte io dovevo rimanere a disposizione, alloggiato a Roma, non distante dalla sede del Ministero degli Esteri. Cosa che feci. Quando riceverai una telefonata mi disse ti recherai lì, velocemente, dove troverai un tenente dei Carabinieri, e insieme a lui e a uno specialista delle telecomunicazioni prenderete possesso della sala trasmissioni del Ministero. Poi le indicazioni erano che al mattino sarebbe arrivato un alto funzionario, un ambasciatore, per prendere in mano la situazione e bloccare tutte le comunicazioni tra Roma e le sedi estere».

Junio Valerio Borghese dov'era e cosa fece?

«La sera del 7 dicembre e tutta la notte tra il 7 e l'8, la passò a Roma, in località Bufalotta, dentro un ufficio di un palazzo in costruzione: la sede era stata messa a disposizione, assieme a soldi e altri mezzi, da Remo Orlandini, un costruttore, braccio dentro del Comandante».

Vada avanti.

«Alle 2.15 di notte io non avevo ancora ricevuto la chiamata, così chiamai Orlandini: Abbiamo annullato tutto, non posso dirti altro. Vai via, mi rispose. Roma era allagata, c'era stato un nubifragio. Rimasi dov'ero fino al mattino, poi me ne tornai a casa, a Rieti. Dopo seppi che come me, tutte le persone coinvolte nell'operazione furono fermate da una telefonata».

Altri, chi?

«Alle 23,30 fu fermata la colonna di automezzi della Scuola Forestale che era già in marcia sulla via Olimpica verso la sede Rai. E con loro tutti coloro che erano stati allertati, in particolare i Carabinieri, che secondo le indicazioni del Piano Solo dovevano realizzare il colpo di Stato. Prima di mezzanotte due gazzelle dei Carabinieri del gruppo Monte Antenne, comandato dal Maggiore Salvatore Pecorella, dovevano andare in una sede segreta dei nostri servizi, a Fregene, a prelevare il comandante della Regione Piemonte dei Carabinieri, il generale Michele Vendola, incaricato della direzione militare del golpe. Lui doveva prendere possesso del Comando generale dell'Arma, che come si sa non aveva al suo vertice un carabiniere ma un generale che proveniva da un'altra arma dell'Esercito, e che non aveva aderito al piano. Michele Vendola, favorevole all'azione, era l'uomo giusto perché godeva del prestigio degli altri Comandanti regionali dei Carabinieri. Ma lui non arrivò mai. Non so neppure se si mosse da Torino».

Secondo lei cosa accadde? Chi fermò tutto, e perché?

«Per mesi non seppi nulla. Poi negli anni ho ricostruito quanto è successo, e mi sono fatto un'idea. A bloccare tutto, prima di mezzanotte, furono i due uomini che facevano da tramite fra il Comandante Borghese e i servizi segreti americani: il generale Vito Miceli, a capo del servizio segreto dell'Esercito, e l'Ammiraglio Gino Birindelli, comandante delle truppe Nato nel Mediterraneo, con base a Napoli».

E perché fermarono tutto?

«Credo su ordine di Israele, tramite il Mossad. Gli Israeliani erano a conoscenza di ogni cosa, anche del fatto che il garante politico del nuovo governo sarebbe stato Andreotti. E a Israele non andava bene: troppo favorevole ai palestinesi. Il Mossad fece pressione sugli americani e gli americani fermarono l'operazione».

Stefano Delle Chiaie c'entra qualcosa?

«Assolutamente no. Si fece bello inseguito, ma nessuno voleva avere a che fare con lui, tanto meno io».

E Cosa Nostra e la loggia P2?

«Mai sentito parlare né di una né dell'altra, in merito al golpe».

Qualcuno disse che Cosa nostra doveva fare il lavoro sporco... Eliminare chi doveva essere eliminato.

«Nessuno doveva essere eliminato. Il Comandante Borghese diede ordine che l'intera operazione fosse portata a termine dai Carabinieri, senza violenze. E le persone sgradite trasferite in Sardegna, in una località che poi scoprii essere legata a Stay-behind».

La Polizia c'entrava qualcosa?

«No. Solo i Carabinieri. L'unico poliziotto acquisito alla causa era Federico Umberto D'Amato, dell'Ufficio Affari Riservati del Ministero dell'Interno. Dentro il Ministero era a capo di una sezione speciale della Polizia che per anni fu responsabile di diverse operazioni sporche in varie parti del mondo... Aveva rapporti sia con la Destra che la Sinistra estrema. Lui era informato di ciò che stava accadendo quella notte, ma non partecipò».

E Andreotti? Sapeva?

«Giovanni Minoli, in una trasmissione del 2005, quando uscirono documenti sul golpe, glielo chiese. Lui disse che non sapeva niente. Ma fu strano. Un uomo come Andreotti, così sicuro, sempre con la battuta pronta, quella volta mi apparve imbarazzato... balbettava, era a disagio, anche Minoli glielo fece notare. Io mi sono fatto l'idea che qualcuno lo aveva informato. Difficile che il Capo dei servizi segreti militari o l'ambasciatore americano a Roma, entrambi a conoscenza del suo nome, non gli avessero detto nulla».

L'obiettivo quindi non era portare al governo l'Msi ma un regime autoritario democristiano.

«È così. Anzi, secondo lo storico Giuseppe Parlato è possibile che Giorgio Almirante, quando capì cosa stava succedendo, contattò il Ministro degli Interni rivelando i suoi timori, giocando d'anticipo per paura di rimanere stritolato dal meccanismo già messo in moto».

Sembra che in questa storia la politica c'entri poco: semmai gli alti comandi militari.

«E servizi segreti».

A Lei cosa accadde dopo il golpe?

«Fino nel '74 nulla. Poi ci fu l'arresto di Miceli e di altri golpisti, fra cui io. Avevo decine di imputazioni, poi derubricate. Rimasi in carcere nove mesi, poi uscii in attesa del processo. Mi fu permesso di andare a Londra per curarmi da una particolare forma di leucemia, da un ematologo famoso. Non tornai in Italia neppure una volta assolto. Come chirurgo lavorai per l'Organizzazione mondiale della Sanità, sempre dentro la rete Gehlen, prima a Parigi, poi in Africa. Tornai in Italia a fine 1999».

Lei nega che dovesse diventare il Ministro degli Esteri nel nuovo governo golpista?

«Nessuno mi prospettò questo ruolo».

Quella notte, se fosse arrivata la telefonata, sarebbe andato al Ministero degli Esteri?

«Certo. Avevo detto che lo avrei fatto: sono un uomo di parola».

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