Il recital di Evgeny Kissin, leggenda del pianoforte, era tra i più attesi del festival di Verbier (Svizzera), manifestazione che certo non manca d'eventi da capogiro, si pensi all'accoppiata Kavakos & Capucon, a Daniil Trifonov con orchestra e in duo con Martha Argerich, ai Maisky, a Alexander Malofeev, a Mikhail Pletnev, all'astro nascente Klaus Makela.
Ma gli strumentisti sono anche atleti, un problema a un muscolo - spesso spinto oltre i limiti - e il concerto salta. E così, una tendinite al braccio sinistro ha costretto Kissin, di Mosca, classe 1971, a cancellare il recital, sedute di fisioterapia e agopuntura non hanno risolto la situazione. Lo ascolteremo però alla Scala di Milano e all'Accademia di Santa Cecilia di Roma fra gennaio e febbraio 2023, a settembre esce inoltre il suo ultimo cd per Deutsche Grammophon.
Nelle due settimane svizzere, Kissin è stato spettatore dei colleghi, lo abbiamo visto alle serate negli chalet, in uno spettacolo teatrale. Poi scompariva, e non fra le cime: rientrava in hotel per «scrivere un Trio dedicato alla guerra in corso. Manca solo il finale, non vedo l'ora di tradurre in musica il trionfo dell'Ucraina», racconta Kissin che è anche compositore. Lo dice alla russa, con gran movimento di braccia e occhi di fuoco. A dire il vero Kissin è sì russo, ma a modo proprio. Anti-Putin da sempre, si accalda quando parla del comunismo, «il diavolo assoluto. L'unica cosa che funzionava in epoca sovietica era il sistema musicale, eccellente anche oggi».
Quanto al tema identitario, specifica, «prima di tutto sono ebreo, originario della Bielorussia per parte di padre e dell'Ucraina per parte di madre. A dire il vero, dovrei essere Evgeny Otman, un cognome di chiara matrice ebrea e che dunque non avrebbe consentito a mia sorella, maggiore di 10 anni, di iscriversi alla Scuola Centrale di Mosca. Le cambiarono il cognome, stessa cosa per me. Essere ebrei in Russia non è mai stato facile. Mai», Kissin s'irrigidisce nel dirlo.
Per semplificare la vita itinerante, prima prese un passaporto inglese («L'Inghilterra è la più vecchia democrazia del mondo, patria di Shakespeare, Newton, Watt. E Churchill: il mio mito»). Poi la crisi: «Che tipo di inglese sono? Così chiesi la cittadinanza israeliana», quindi la residenza a Praga.
Kissin ha un passato da prodigio puro. A due anni canta Bach, mani che istintivamente cercano la tastiera, mamma pianista ne comprende il talento, lo svezza poi lo iscrive alla scuola più esclusiva che ci sia, la «Gnessin». Qui incontra Anna Pavlovna Kantor: sarà l'unica sua docente, parte della famiglia, c'è anche lei quando i Kissin migrano nel 1991 a New York. È scomparsa la scorsa estate, «le dedico il mio ultimo cd» spiega più che commosso. «La signora Pavlovna una seconda madre? Non era seconda in nulla. Era un membro della famiglia. Mia mamma l'ha accudita fino alla fine».
A differenza del collega Lang Lang, che ha fatto largo uso della leva-marketing di un'infanzia da lavori pianistici forzati, Kissin racconta, «c'era una cosa che volevo fortemente da bimbo, ed era suonare il pianoforte. Un desiderio dal cuore. Non ho avuto un'infanzia infelice perché passata alla tastiera, semmai proprio il contrario». Adolescente toccò lo zenit incontrando Herbert von Karajan. «Era il 9 agosto 1988. L'appuntamento era fissato per le 11.30, in quell'esatto momento si aprì l'ascensore della sala 447 del teatro del Festival di Salisburgo. Karajan non poteva più camminare, ma la sua stretta di mano quant'era vigorosa. Mi sedetti al pianoforte e iniziai a suonare. Finito, mi girai verso Karajan che mi mandò un bacio. Lo vidi levarsi gli occhiali scuri e asciugare le lacrime. Lascio a voi immaginare cosa poteva accadere nel mio animo di ragazzo».
In Italia venne per la prima a volta nel dicembre 1987, a Milano, grazie al fiuto di Antonio Mormone, impagabile scopritore di talenti. Ora ricambia quell'atto di fiducia presiedendo il Concorso Premio Mormone. Primi ricordi italiani? «Un giornalista mi chiedeva insistentemente che indicassi cosa non mi piaceva del vostro Paese. Non avevo ancora vent'anni, e ingenuamente dissi sottovoce: Forse... la mafia?. Nell'Urss degli anni Ottanta spopolava una serie tv sulla mafia, io pensavo fosse ovunque». (Italiani campioni di marketing).
Kissin ha lasciato la Russia nel 1991, anno in cui «aprii un conto corrente in una banca di New York, versai i ricavi dei concerti. Nel frattempo l'impresario di allora si preoccupò dei visti e ci trovò pure un appartamento nell'Upper West Side. Vi rimanemmo undici mesi». Il tutto con maestra e mamma: sempre al fianco di Evgeny, dal 2017 condiviso con la moglie Karina Arzumanova e i figli di costei. Erano amici d'infanzia, poi lei si sposò, divorziò, ora le due strade sono tornate a congiungersi.
Che tipo di esperienza vorrebbe che avesse uno spettatore di un suo concerto? «Quando Karajan e i Berliner Philharmoniker vennero nella Mosca sovietica, un musicista che assistette al concerto mi disse che sembrava non ci fosse un direttore e neppure
un'orchestra, si sentiva Mozart e basta. Vorrei che chi viene a un mio concerto avesse la percezione di entrare in contatto con Chopin, Beethoven, Bach... dimenticandosi che a eseguirli sono io. Ecco, questo è il mio ideale».
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