"Un vero direttore non fa il tiranno ​e non mette paura"

Il maestro lettone il primo settembre alla Scala alla guida della Boston Symphony Orchestra

"Un vero direttore non fa il tiranno ​e non mette paura"

È nella top ten delle migliori orchestre al mondo. E mancava a Milano da 22 anni. Si preannuncia dunque un concerto evento quello che la Boston Symphony, il primo settembre, terrà al Teatro La Scala. Anche perché a guidarla sarà il suo nuovo e giovane direttore, il lettone Andris Nelsons, che dopo un anno di collaborazione con la Boston, in questi giorni si è visto prolungare il contratto fino al 2022, annuncio fatto coincidere con la pubblicazione del primo cd per Deutsche Grammophon e alle porte del tour nei centri chiave d'Europa. Nelsons ha già messo piede alla Scala, senza assaporarne il podio, però. È stato in platea, spettatore della moglie, il soprano Kristine Opolais, anche lei astro nascente del canto. La coppia è glamour: fascinosi, baltici, carriera in continua ascesa, ma con una vita privata protetta con nordica discrezione. Nelsons, 36 anni, è direttore dalle quote in ascesa. Ha in testa un chiaro obiettivo: mantenere inalterato il marchio di questa Ferrari della musica. Ci racconta che con la Boston è stato amore a prima vista, «subito ho avvertito una relazione speciale. Come in una coppia, anche nell'orchestra c'entra la chimica».

Cosa rende la Boston così speciale?

«Il fatto di avere un suono inconfondibile, cristallino eppure ricco. Sentiamo la chiarezza francese, la ricchezza tedesca, un aspetto emozionale slavo».

Anche Riccardo Muti, alla testa della Chicago Orchestra, lo ricorda spesso: negli Stati Uniti non si sgarra.

«Si lavora sodo e in modo ordinato. Gli standard di disciplina e professionalità sono alti. Già prima dell'inizio delle prove, senti un profondo silenzio e concentrazione. La cultura del Paese sprona a far sempre meglio, ad aspirare al successo, incide poi la consapevolezza del prestigio dell'orchestra».

I segreti di bottega?

«Andare alle prove preparatissimi. Quando fermi 100 strumentisti per raffinare un passaggio devi essere consapevole di quello che stai facendo».

Nella direzione c'entrano tecnica, talento musicale, ma è fondamentale la componente psicologica.

«La qualità della relazione umana è determinante. Gli orchestrali avvertono subito se il direttore è egoista, se ha la tendenza alla tirannide, o se invece preferisce il dialogo e antepone il compositore a se stesso. Se un direttore ostenta il suo potere, finisce per irrigidire l'orchestrale che non mostrerà dunque un genuino apprezzamento per quello che fa, suonando senza convinzione. I musicisti non devono suonare con la paura, così non riescono ad esprimersi. Dirigere non è una questione di potere».

Come commenta, Nelsons, la massima di Herbert von Karajan secondo cui sono due gli ambiti dove la democrazia non aiuta: musica ed esercito.

«Non è una democrazia nel senso di “facciamo quello che vogliamo”. Il direttore deve ispirare, incoraggiare ma innegabilmente decidere. Ma guai a fare il dittatore. L'unico dittatore è l'autore della partitura che metti sul tuo leggio quando alzi la bacchetta. Sul podio il mio obiettivo è offrire una visione credibile che trascini un'intera orchestra. Nella vita quotidiana cerco di essere un buon marito e padre. Tutto qui».

Shostakovich: Under Stalin's Shadow (Shostakovich: all'ombra di Stalin) s'intitola il cd appena pubblicato. Titolo emblematico per Lei nato in un Paese satellite dell'allora Urss. Cosa ricorda di quegli anni?

«Il sistema scolastico era fenomenale. Si studiava sodo, ricordo le ore ed ore spese al pianoforte e alla tromba. È stato inculcato un senso di disciplina utilissimo anche oggi. Mi sento un privilegiato per aver potuto studiare in quegli anni. Però c'è l'altro lato della medaglia. La storia è nota. Sappiamo quante vittime ha fatto il regime di Stalin. Si avvertiva il senso oppressivo della propaganda. Noi lettoni non potevamo cantare i nostri canti, parlare del nostro Paese.

Quando venni per la prima volta in Occidente, in Germania, fui scioccato nel vedere la qualità di vita, quel benessere a noi sconosciuto. Il sistema di lavoro stacanovista mi ha poi aiutato negli anni Novanta, quando freschi di libertà avevamo però un Paese da ricostruire».

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