Quest'estate, nella tenuta in campagna della mia compagna, mi sono ritrovato una zecca sul tavolo, e ho scoperto quanto siano indistruttibili. Potete schiacciarle con un piede, prenderle a martellate, gli fate il solletico. Mi hanno sempre fatto impressione le zecche, perché ti si attaccano e ti succhiano il sangue e in una puntata di Dr. House ho visto che possono trasmettere malattie terribili, tant'è che quando una persona ti sta fastidiosamente addosso si usa dire che è una zecca. Sono cieche e sorde, potevo immaginarlo, non le immaginavo con occhi e orecchie. Meno potevo immaginare che hanno un olfatto sensibilissimo, riconoscono l'acido butirrico emesso dalle ghiandole cutanee dei mammiferi, e da un ramoscello si lasciano cadere sull'ospite ignaro. Mentre mi chiedevo cosa fa la zecca se sotto non passa nessuno, ancora di più mi ha stupito apprendere di uno studio specifico del 1934 di Jakob von Uexküll che ha dimostrato che una zecca può aspettare sul suo ramoscello anche diciotto anni. Diciotto anni! Insomma, si potrebbe dire: paziente come una zecca. Adesso mi fanno tenerezza.
«Trovo che le cose più interessanti nella scienza (e altrove) dimorino con maggior agio nei territori di confine», dice Giorgio Vallortigara, uno dei nostri maggiori neuroscienziati di fama internazionale. Le sue ricerche sono tra le poche finanziate da anni dall'Unione Europea con milioni di euro che vanno al Centro Mente/Cervello dell'Università di Trento, da lui diretto per molti anni e di cui oggi continua a essere ricercatore e professore, insomma non un cervello in fuga ma un cervello che è rimasto in Italia per studiare i cervelli (non degli italiani).
In attesa del suo libro pubblicato negli Usa dall'Mit (Born Knowing, consigliato a chi legge bene l'inglese), dopo l'uscita del bellissimo Pensieri della mosca con la testa storta, edito da Adelphi, viene ripubblicato dopo venti anni da Il Mulino Altre menti, un saggio divulgativo sullo studio comparato della cognizione animale. È qui che ho letto della zecca, e non solo.
Vallortigara, all'epoca di questo libro ancora non dedito esclusivamente ai minicervelli (pulcini, api, pesci, mosche, formicaleoni), mette a confronto, con un'affabulazione degna di Oliver Sacks (anche oratoria, cercate le sue conferenze su Youtube, sono imperdibili), ciò che è la coscienza nelle varie specie animali, uomo incluso. È un viaggio tra i neuroni di lombrichi e pappagalli e elefanti e scimpanzé che parlano con il linguaggio dei segni fino a una vera e propria intervista a un delfino, Alex.
Il bello è che molti test sulla percezione potete farli voi leggendo il libro, ma vi sono stati sottoposti tanti altri animali, talvolta con risultati migliori dei nostri. Le api, per esempio, portate lontane da un posto dove avevano localizzato del cibo, lo ritrovano immediatamente seguendo la via più diretta, dimostrando di avere una mappa cognitiva dell'ambiente, senza bisogno del Gps (che a noi anzi spesso fa perdere la strada).
Scoprirete infinite similarità sorprendenti tra i nostri cervelli e quelli delle altre specie, e d'altra parte non poteva essere altrimenti, provenendo tutti da un unico antenato unicellulare. Il test dello specchio, per esempio, non lo superano solo le grandi scimmie antropomorfe (scimpanzé, gorilla, bonobo e uomo, tranne l'orango), ma perfino i piccioni, che cercano di togliersi una macchia sul petto dipintagli a loro insaputa riconoscendosi nel proprio riflesso. E che dire della capacità di riconoscere e attribuire stati mentali agli altri? Chi ha gatti e cani sa quanto siano capaci di capirci spesso più della nostra moglie o marito, ma i bambini non sono capaci di attribuire stati mentali agli altri fino ai quattro anni.
È per questo, nella ricerca di un minimo comune denominatore della coscienza, che gli studi di Vallortigara si sono concentrati sui pulcini, perché appena escono dall'uovo hanno già concezioni di fisica e di matematica, sono appunto born knowing, nati imparati. Cosa che non siamo noi, quando nasciamo non capiamo sostanzialmente un tubo. Ci battono perfino i macachi: di fronte a un disegno prospettico con due oggetti, un macaco di sette settimane è capace di riconoscere il più vicino e il più lontano, a un bambino occorrono sette mesi. (Ne leggerete molti di questi studi, che metteranno in crisi gli antiabortisti ma viceversa potrebbero far insorgere gli animalisti.)
Ciò che interessa a Vallortigara, e il motivo dell'interesse mondiale per i suoi studi, è andare sempre più in profondità per capire le origini della coscienza, ciò che è dovuto a apprendimento e ciò che è innato nelle varie specie. Non è interessato a vedere quale animale sia più intelligente dell'altro (ci sono solo, per lui, varie specializzazioni dei cervelli), ma ciò che evolutivamente ci accomuna come animali, e soprattutto dove e quando nasce la coscienza minima di sé. (Sarà per questo che ultimamente, per me insopportabilmente, è diventato molto amico di Daria Bignardi, la starà studiando.)
Ci sono api, opportunamente addestrate, che sanno riconoscere un qualsiasi Monet da un qualsiasi Picasso, galline che riconoscono più di duecento volti (argomento trattato da Vallortigara anche in un altro libro, Cervello di gallina), e scimpanzé che comunicano (usando il nostro linguaggio e non il
loro) di sicuro molto meglio di tanti animali umani che abbiamo visto dare il peggio di sé in campagna elettorale, dovendo convincere i loro simili di essere i migliori per governarli. Molto meglio studiare le altre menti.
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