"Fra me e la Scala un legame profondo che non finirà mai"

In gennaio il grande ritorno del Maestro che dirigerà la Chicago Symphony. L'inizio di un nuovo progetto?

"Fra me e la Scala un legame profondo che non finirà mai"

È stata una giornata storica quella vissuta ieri al Teatro alla Scala. Il direttore d'orchestra Riccardo Muti vi ha rimesso piede, dopo undici anni di assenza, e la famosa sentenza «non tornerò mai più». È tornato da spumeggiante conferenziere, mentre il prossimo gennaio sarà sul podio dirigendo la Chicago Symphony. Più in là - pare - ci sarà dell'altro, assicurano alla Scala.

Muti ha così tagliato il nastro della mostra con cui la Scala festeggia i 75 anni del Maestro, 19 dei quali spesi proprio in questo teatro. Che ieri era traboccante. Al suo apparire in palcoscenico, Muti è stato accolto con un interminabile applauso, una standing ovation e un corale «Ben tornato casa. Ti vogliamo sempre qui adesso». In platea, fra gli altri, Diana Bracco, i Botta, gli Squinzi, i Monti, Francesco Micheli, i cantanti Barbara Frittoli, Daniela Dessì e consorte, i genitori di Salvatore Licitra (scomparso prematuramente), Pierluigi Pizzi. E persino Carlo Fontana, il sovrintendente di allora, a un certo punto in tremenda collisione con Muti. In breve: nel febbraio 2005 veniva licenziato, così come Muti si dimetteva di lì a due mesi.

Ma, soprattutto, c'era una Cristina Muti visibilmente commossa, e da sempre al fianco di tanto direttore, anche durante il ventennio in cui Riccardo Muti è stato il direttore musicale della Scala.

«Sicuro che ti senti a casa»? Ha chiesto Lorenzo Arruga, curatore della mostra. «Certo avendo dato 20 anni della mia vita a questo teatro. Il ritorno in questa sala con questo pubblico è motivo di grande commozione, anche se io non faccio vedere i miei sentimenti. Questo teatro e questa città hanno fatto parte di una lunga parte della mia vita artistica. Tante cose sono avvenute sotto la mia direzione. Quello che ho dato a questo teatro e a questa città, dunque al nostro Paese, è stato dato con una passione e dedizione totale».

Quindi un legame mai interrotto...

«Amo profondamente questo teatro. La Scala è stata un faro nel mondo. Il mondo ci ha sempre guardato. Non dimentichiamo la grande Scala che produceva... È una grande responsabilità essere sovrintendente e direttore musicale di questo teatro».

Che cosa rappresenta la Scala?

«La Scala è Il Teatro. C'è un passato che per noi è responsabilità enorme. Soprattutto in un Paese in cui la cultura è parola vuota. Io spero che in futuro si volti pagina».

Lei si è sempre battuto su questo fronte.

«So che in Danimarca l'insegnamento della musica fa parte di un articolo della costituzione, è legge. L'insegnamento della musica non è mettere un piffero in bocca, è insegnare a vivere insieme, in armonia. Sono appena stato in Corea del Sud, dove ci sono 30 orchestre. Noi in Italia abbiamo regioni senza teatri e orchestre, e questo in un Paese che ha inventato l'opera, gli strumenti, ha dato i nomi alle note».

Un ricordo dei primi anni scaligeri?

«Nel 1986, al mio primo anno di direzione musicale alla Scala, feci Nabucco. Finito il Va' pensiero ci fu un urlo del pubblico. Non urlava per la sublime esibizione, semmai dopo anni aveva ritrovato la musica che appartiene alle mura di questo teatro. Così iniziarono a chiedere bis bis bis. Sapevo che qui c'era la tradizione di non fare bis. Però non volevo inimicarmi il pubblico. Vissi un momento di panico. Lì mi venne incontro il coro della Scala: i bassi mi guardavano. Io come un adolescente guardai il coro come per dire, che faccio? Loro annuirono. Allora feci il bis. Il giorno dopo sulle prime pagine dei giornali c'era ampia discussione: ha fatto bene o no a fare il bis? Cose d'altri tempi».

Un altro momento speciale?

«Don Giovanni di Mozart con Strehler. Una sera mi sentii un verme di ignoranza. Ero entrato in teatro verso le 22. Strehler stava lavorando su una luce particolare. Vidi una luce sublime, e pensavo che non fosse perfettibile. Strehler continuò a lavorarci fino a mezzanotte. E vidi una luce ancora più bella. Capii che la strada della bellezza è lunga».

Come si lavorava con i registi?

«Si lavorava tanto insieme. Penso a Strehler. Mi avevano detto che lui era difficile, e a lui era stato detto che io ero impossibile. Strehler era seduto lì, vicino ai palchi, io là (indica all'opposto, ndr). Poi, siccome ci entusiasmavamo per quello che raccontavamo, iniziammo a muovere le sedie, e alla fine le sedie erano vicine. Alla fine c'era un entusiasmo straordinario».

La differenza fra il critico e l'intenditore?

«Voi quando venite in teatro e qualcuno vi dice, quello è un intenditore, bene: stategli lontani. Perché un musicista serio, di una partitura comprende la strumentazione, ma l'universo che sta dietro non lo comprende nessuno. L'intenditore invece capisce tutto. Ecco l'identikit: ha colorito pallido, quasi anemico, occhiali scuri, rasenta i muri, mette terrore alla gente. Ha a casa 40 interpretazioni diverse, e se le ascolta tutti i giorni. L'intenditore in genere fa il critico musicale. Io una volta vorrei mettere un pianoforte qui in palcoscenico, chiamare un critico, e dirgli di fronte al pubblico: leggi. Voglio vedere che cosa dice. Io ora posso dire quel che voglio, tanto ho quasi chiuso...».

I fischi in teatro?

«Si fischia solo se uno è un cane, ma cane cane. Altrimenti gli artisti non vogliono più tornare in certi teatri, hanno paura».

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