Mente, corpo e mondo camminano di pari passo

Muoversi è indispensabile, come mangiare e respirare ed è un piacere sublime di cui spesso non ci accorgiamo

Mente, corpo e mondo camminano di pari passo

«Fabbricare fabbricare fabbricare/ Preferisco il rumore del mare». Questi versi di Dino Campana non ci chiedono di essere o meno d'accordo. C'è chi preferisce fabbricare, e al rumore del mare preferisce quello delle seghe circolari, dei martelli, delle cazzuole nel cemento, delle betoniere, i richiami e i lazzi di chi lavora sui ponteggi: anche quando a produrre quei rumori siamo noi stessi.

Che romanzi potrei scrivere se, mentre sto davanti al computer, non cercassi di fare qualcosa che somigli al rumore del mare (ma anche a quello dei badili, dei cassoni ribaltabili, dei frullatori, delle porte che sbattono al vento)? L'infinito è dappertutto. Si capisce che il problema non è «cosa preferisco» ma «quale punto di verità è stato toccato». I versi del poeta toccano una verità ma per così dire non la dicono, piuttosto la mandano a dire. Essi risorgono, spontanei, alla mente dopo la lettura di questa eccellente Storia del camminare della scrittrice e antropologa Rebecca Solnit (Ponte alle Grazie, pagg. 450, euro 19,50).

Possiamo fare a meno di pensare, ma non di mangiare, respirare e camminare. Ma le librerie e i palinsesti tv sono pieni di volumi e programmi di ogni genere sul mangiare, e le palestre sono piene di istruttori che ci insegnano la respirazione e i movimenti che la favoriscono e la regolano (aerobica) e perfino gli psicologi si propongono di rieducare alla corretta respirazione nei casi di dispnee, attacchi di panico, iperventilazione. Viceversa, l'atto umano del camminare, pur essendo tra quelli culturalmente più rilevanti, ha goduto di riflessioni episodiche.

«Camminare - scrive Solnit - è, idealmente, uno stato in cui la mente, il corpo e il mondo sono allineati come se fossero tre personaggi che finiscono per dialogare tra loro (...). Camminare ci permette di essere nel nostro corpo e nel mondo senza esserne sopraffatti. Ci lascia liberi di pensare senza perderci totalmente nei nostri pensieri».

Occorre riflettere. La nostra vita si svolge quasi interamente all'interno di mondi predefiniti, programmati. Dobbiamo tenere tutti questi mondi sotto controllo. Anche il cosiddetto tempo libero. Il prodotto di tutto questo è una vita senza sorprese, dove conoscere qualcosa diventa difficile, perfino la città dove abitiamo. Siamo così abituati a «saper come si usa» la realtà che alla fine non la conosciamo più o, peggio, ci vietiamo la possibilità di conoscerla davvero. L'esperienza del camminare, quando è un'esperienza e non una nuova coazione, consente il ripristino di un'attitudine conoscitiva. Il mondo, visto a tre km all'ora, recupera lo spessore della realtà. Ti domandi che albero è questo, perché la facciata di quella casa sporge, a che epoca appartiene questo rudere, cose così, e senti che tu sei fatto anche di queste cose. «L'aleatorio, il non riparato - scrive ancora Solnit - ci permette di trovare quello che non si sa di cercare, e non si conosce un luogo (ma questo vale per tutto, ndr) finché non ci sorprende».

Solnit è una scrittrice generosa, e talvolta paga la sua generosità. L'esagerazione non le è estranea (come quando sostiene che Rousseau e Kierkegaard non erano veri filosofi) così come l'attitudine scientista, che non riesce a diventare scientifica per un eccesso di certezze. Non sente tremare le fondamenta dell'universo, come accade ai veri scienziati e ai veri filosofi. In compenso è una scrittrice seria, di una serietà minuziosa abbastanza sconosciuta in Italia. Solnit studia, s'informa, cataloga, classifica, enumera e solo poi si mette a scrivere.

La sua militanza femminista si fa sentire ma sempre a giusta ragione. In questo libro Solnit ci aiuta, con una prosa lucida, pacata, elegante non per lo stile ma per l'intelligenza in movimento, a guardare il mondo così com'è nel momento in cui corpo, mente, paesaggio, pensiero, «sé» e «altro da sé» si compongono in un atto semplice e universale come l'andare a piedi.

Se ho amato particolarmente questo libro è anche per ragioni biografiche. In due anni ho perso oltre quaranta kg e questo mi ha permesso di recuperare piaceri che avevo smarrito. Uno dei piaceri maggiori è stato proprio quello del camminare. A 139 kg camminare è una pena, salire le scale un incubo. Se mi impegnavo in uno sforzo per me eccessivo ecco l'iperventilazione, con l'angoscia o il panico che ne era la conseguenza: respiri ma l'aria non entra nei polmoni. Ma l'obesità è solo uno dei modi in cui la nostra vita rallenta, s'inceppa, si fa pesante. La dipendenza da cibo (come tutte le dipendenze) è un cortocircuito dentro un'esistenza che sembra tutta fatta per alimentare i cortocircuiti di ogni genere.

Dopo tante diete fallimentari, ho trovato quella giusta. Dedicherò un libro cercando di spiegare perché proprio questa ha funzionato: non è il tipo di dieta, è qualcosa di molto più profondo, che credo di avere individuato.

Ma la scoperta più esaltante, man mano che l'indice della bilancia si avvicinava a quota cento e poi scendeva allontanandosi sempre più dalle tre cifre, è stata la riscoperta degli stati elementari del mio corpo: respirare, camminare, sentire il battito del mio cuore. Come dice Solnit. Chi ha fatto tanta fatica a camminare ve lo può garantire: camminare è bellissimo, è un piacere sublime, del quale non ci accorgiamo solo perché ci siamo abituati.

Il libro si getta in pagine dense di storia, di geografia, di antropologia, di politica. Dai camminamenti preistorici che hanno prodotto i sentieri che divennero poi strade, autostrade, ai pellegrinaggi medievali, dalle marce di protesta a quelle promosse a scopo fundraising, tutte le forme del camminare si stampano le une sulle altre: così che anche chi marcia per protesta non può cancellare la radice religiosa del suo gesto. O, meglio, la radice universale.

Perché l'uomo è cammino, noi siamo cammino: anche in sedia a rotelle, anche sul letto di morte la nostra vocazione non cambia. Per città, deserti, montagne, boschi, fra milioni di simili, in totale solitudine, ciò che la nostra natura esprime camminando è una dimensione amicale, comunionale, che abbraccia spazio e tempo.

L'essere da soli

oppure in compagnia non dipende infatti dal numero di persone che ci circondano, ma da una radice personale. Che si disvela solo nel momento in cui muoviamo i nostri piedi fuori da noi stessi. Questo è il rumore del mare.

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