Elliot Ackerman ha un gran sorriso, sì proprio quel tipico sorriso un po' hollywodiano da americano, e l'aria del ragazzino giramondo. Sembra più giovane dei suoi 36 anni e i ricci fitti e un po' ribelli, come il bracciale di perline, gli danno l'aspetto di un globetrotter che abbia appena appoggiato lo zaino. Solo la robustezza dei bicipiti e una certa rigidità nella postura tradiscono il suo passato militare. Ed è un passato di tutto rispetto. Ha servito per otto anni nella fanteria e nelle forze speciali degli Stati Uniti. Nella seconda battaglia di Fallujah si è guadagnato una silver star e una purple heart. In Afghanistan, nel 2008, una stella di bronzo per la sua attività nei corpi speciali dei marines. Coordinava l'attività di un contingente di 700 uomini delle milizie locali impegnato a dare la caccia ai talebani. E per farlo ha dovuto immergersi nel mondo degli afghani molto di più di quanto capiti a un soldato normale. Ed è da questa esperienza che nasce il suo romanzo Prima che torni la pioggia (Longanesi, pagg. 320, euro 16,90) appena tradotto in italiano. Racconta la guerra, ma vista dagli occhi di un giovane afghano che si ritrova a combattere nelle forze filo-americane. Non per convinzione ma semplicemente per mantenere il fratello che ha perso la gamba in un attacco talebano. Nelle pagine tutti i meandri sporchi del conflitto. Una guerra dove il tradimento è la regola e la vendetta tribale la fa da padrona. Una guerra che per i più furbi si trasforma rapidamente in un mestiere dove conta solo portare a casa più soldi possibile. Idee rese con immediatezza dal titolo inglese Green on blue. È la sigla che le forze Nato utilizzano per descrivere il fuoco di milizie amiche (i verdi) sulle forze della coalizione (i blu). Di quello che capita sulla linea del fuoco abbiamo parlato con Ackerman, in visita in Italia.
Signor Ackerman come mai ha scelto di raccontare la guerra afghana attraverso l'ottica dei locali? «Nel mio piccolo ho affrontato un pezzo della guerra afghana. Ho combattuto in diverse zone del Paese e ho visto la logica tribale che è l'humus di quel conflitto. Cambiavano le tribù, le persone, ma non i meccanismi che alimentano il circolo della violenza. Come molti di quelli che hanno vissuto esperienze così intense ho provato il desiderio di raccontarle. È più particolare forse il fatto di aver scelto il punto di vista dei locali. Ma ho combattuto assieme ad alcuni di loro e contro altri di loro e so che probabilmente non avranno mai il modo di narrare direttamente il gorgo in cui sono precipitati. Un aviatore irlandese durante la prima guerra mondiale scrisse questi versi: Quelli che combatto non li detesto / quelli che difendo non li amo. Questo è un sentimento che qualunque combattente capisce. Dopo mesi di combattimenti un soldato può avere più cose in comune con il suo nemico che con un cittadino americano che non è mai stato al fronte».
Nel suo libro la guerra si trasforma in un meccanismo circolare. O sbaglio? «Le racconto una cosa. Per mesi io ho lasciato il mio posto di comando per incontrare il comandante dei miliziani alleati, un tagiko. Attraversavo la zona del fuoco. Mi accoglieva nel suo rifugio, tirava fuori il the e le sigarette e guardavamo una grande mappa. Mi indicava un villaggio e diceva: andiamo qui e faremo buona caccia. Si organizzava un attacco. Ogni due settimane la stessa cosa, cambiava solo il villaggio. Nella metà dei casi il convoglio finiva in una imboscata. Mai nelle sue parole ho letto anche solo la speranza che l'operazione che stavamo svolgendo servisse a far finire la faccenda. Gli afghani vivono una guerra senza fine e per molti di loro la prospettiva che finisca non è nemmeno augurabile».
Perché?«La vita media in Afghanistan è di una cinquantina d'anni, l'invasione Russa è del 1979. La maggior parte delle persone non ha nemmeno idea di cosa sia la pace. Non riescono nemmeno a pensarla. Anzi per quanto possa sembrare paradossale la guerra a bassa intensità che si combatte da quando gli occidentali sono lì è la cosa più simile alla pace che abbiano conosciuto. In Iraq, dove sono stato, è un po' diverso. Almeno la gente ha un'idea di cosa fosse una vita normale. Una pace orribile, sotto Saddam, ma pace».
Ma da un posto del genere non si potrebbe avere la tentazione di andarsene e basta?«È una tentazione forte. Ma avrebbe senso? In questi anni ci sono stati anche progressi enormi. La condizione della donna afghana ha fatto passi da giganti. Andare via significa far ripiombare tutto al punto di partenza. Non esistono soluzioni rapide, ma non ci si può semplicemente disinteressare della faccenda».
Vinta la Seconda guerra mondiale il processo per far rientrare nel contesto democratico le potenze dell'asse è stato rapido. Perché in questi Paesi le cose vanno diversamente? «È difficile dare una risposta. Ma in quel caso, soprattutto per i giapponesi, sotto la minaccia di un'arma atomica e dopo distruzioni inimmaginabili, la pace divenne accettabile, anzi la sola soluzione. Le moderne guerre a bassa intensità non creano di sicuro lo stesso contesto».
Una percentuale molto alta dei migranti che vengono in Europa arrivano dall'Afghanistan: hanno possibilità di riuscire ad integrarsi?«Quando ero in Afghanistan partecipai alla preparazione dei documenti per far immigrare negli Usa uno dei nostri interpreti. L'idea di potersene andare era una delle cose che lo spingevano a lavorare per noi. Quando le carte furono pronte organizzammo una festa. Lui piangeva, era terrorizzato. Non può essere un viaggio senza ritorno in un mondo completamente diverso la sola prospettiva».
Lei ora scrive per i giornali americani di Siria dalla Turchia.
Come vede quella situazione?«Domandina da niente, eh... In Siria si sono sovrapposte guerre diverse. Nessuno può dare risposte. L'errore è stato sperare in una rivoluzione pacifica. Ora dobbiamo capire come governare il caos».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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