Che Luisa Ranieri sia un tipetto tosto, s'intuisce immediatamente. E non è questione solo di quella sua bellezza trionfante e imperiosa, né dei suoi modi risoluti. Sono le sue scelte, a parlare per lei. Questa Carmela, ad esempio: vedova siciliana che emigra negli anni Venti in America dove, inesausta madre-coraggio, difende i figli da lusinghe e tentacoli della mafiosa Little Italy non sembra - diciamo la verità - esattamente un personaggio originale. A garantire della sua efficacia ci sono, però, gli sceneggiatori (la storica coppia composta da Laura Toscano - morta nel 2009 - e da suo marito Franco Marotta) e soprattutto c'è lei: volitiva e fascinosa interprete de La vita promessa, romanzone popolare in quattro parti diretto da Ricky Tognazzi e prodotto da Raifiction, in onda su Raiuno domenica e nei tre lunedì successivi.
«Io m'innamoro sempre dell'ultimo ruolo che interpreto - dice lei - ma stavolta è vera passione. Mi spedirono il copione mentre stavo per partorire. Avevo altro a cui pensare. Eppure Carmela mi colpì subito».
Cos'ha trovato in questa vedova perseguitata dall'assassino del marito e che fugge in America con i figli?
«È il ruolo che qualsiasi attrice sogna d'incontrare almeno una volta, nella vita. Eroina di una saga popolare, non appartiene però al cliché della mater familias. Emigrata siciliana d'inizio secolo, non siede però vittima sacrificale accanto al focolare. Al contrario: è una che reagisce. Che combatte. E che sbaglia; perché affascina anche grazie alle sue contraddizioni. Così vorrebbe trovare lei la fidanzata per un figlio, scegliere la moglie per un altro. Per proteggere gli altri vorrebbe, insomma, vivere la vita degli altri al posto loro».
Lei ha dichiarato che Carmela si riallaccia anche ad alcune icone del cinema italiano neorealista e civile.
«Penso alla Loren, alla Magnani, alla Mangano... Donne forti che hanno spesso interpretato madri forti. Anche il mio personaggio ci racconta di come eravamo quando a migrare eravamo noi, e di come vivevamo la famiglia, i figli, il senso d'umanità e di appartenenza, la paura del cambiamento e quella della morte. Una generazione di italiani che non erano solo brava gente».
Quanto la infastidisce che in ogni intervista puntuale arrivi (come arriva ora) la domanda su Luca Zingaretti?
«Non m'infastidisce. Siamo due attori conosciuti, e trovo logico che susciti curiosità il fatto che siamo anche marito e moglie. Solo che a volte la domanda è inappropriata: se non lavoriamo assieme che c'entra chiedermi di Luca? Per questa fiction, a esempio, non fanno che domandarmi se è stato il commissario Montalbano a insegnarmi a parlare il dialetto siciliano».
Ed è stato lui?
«No, naturalmente. Anche perché ci voleva un siciliano più antico, d'epoca e non da fiction. Ci ha pensato un esperto; ed è stato un tormento. Ogni parola, ogni accento dovevano essere perfetti. Ma alla fine credo m'abbiano aiutato a esprimere nel modo più verace un'emotività altrettanto schietta, genuina».
E visto che un lavoro a due presto ci sarà, cioè The Deep Blue Sea di Terence Rattigan, in cui dal 9 novembre Luca Zingaretti la dirigerà al teatro della Pergola di Firenze, la domanda è giustificata. Perché lo avete scelto?
«Il capolavoro di questo autore inglese dei primi del Novecento ci ha conquistati. È la storia di una moglie che perde la testa per un ragazzo, abbandona il marito, discende una china di degrado ma alla fine, toccato il fondo, trova la forza di rinascere. Ecco: proprio la forza con cui questa donna si risolleva, mi ha sedotto».
Ancora una donna forte, dunque, pronta a tutto pur di
realizzare il proprio futuro. Come a dire che quella donna è lei?«Io non mi proietto mai verso il domani. Preferisco applicarmi qui e ora. Procedere passo dopo passo. E cercare semplicemente di godermi il momento».
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