Millet nella bolgia della postletteratura

Nell'«Inferno del romanzo» finiscono Eco, Zola e Toni Morrison. Con gli editor «falsari»

Millet nella bolgia della postletteratura

Ogni uomo ha diritto che le proprie idee vengano esaminate una alla volta, scrisse Ezra Pound. E così, citando un autore deprecato, rivendico il diritto di esaminare L'inferno del romanzo. Riflessioni sulla postletteratura senza legarlo agli altri libri del suo autore, Richard Millet, poco meno disdicevole di Pound. Tanto per essere chiari: non farò riferimenti a Elogio letterario di Anders Breivik. E non mi dilungherò sulla prefazione con la quale Transeuropa ha transennato precauzionalmente il testo: non ricordo un'altra prefazione tanto ostile, in pratica una stroncatura letta la quale non si capisce perché la casa editrice abbia pubblicato un libro ritenuto così spregevole, sia per stile («irritante nella scelta della forma aforistica») sia per contenuto («irritante per il suo nazionalismo»). Misteri editoriali. Una cosa invece è chiarissima: dopo questa cattiva azione Carlo Carabba resta Carlo Carabba mentre Richard Millet resta Richard Millet ossia uno dei più lucidi intellettuali d'Europa.

Sono frammenti («555 come le sonate di Scarlatti») e non c'era modo più coerente per attaccare il romanzo contemporaneo ossia il romanzo postletterario, il romanzo scritto da chi non legge e letto da chi non ha mai letto di meglio, un prodotto senza lingua e senza stile «che esiste unicamente per servire l'industria cinematografica». Narrazione senza introspezione, inevitabile risultato delle scuole di scrittura e del lavorio degli editor qui definiti «falsari». Il bello è che Millet fa i nomi e ne fa pure tanti. «Rushdie, Eco, Murakami, Auster, Pamuk, Franzen, Oates, Sepúlveda, Baricco, Ishiguro: questi autori vogliono essere scrittori per nostalgia furbesca, vale a dire per non misurare il loro nulla». Racconta di non essere riuscito a finire un libro di Tabucchi. Racconta di aver letto anche con piacere un romanzo di Jonathan Coe ma di averne dimenticato, oltre che l'intreccio, addirittura il titolo, per colpa dell'inconsistenza stilistica. «Corman McCarthy e Bret Easton Ellis sembrano più fumo che arrosto, Toni Morrison è la voce del politicamente corretto». Si scaglia contro i connazionali Marc Levy, Guillaume Musso, Bernard Werber, Anna Gavalda, Emmanuel Schmitt, definendoli «romanzieri gallo-yankee» perché utilizzano un francese anonimo, piatto, troppo facilmente traducibile e pertanto quasi inglese. L'inglese è la bestia nera del patriottico Millet, anzi l'anglofonia come habitat naturale del romanzo contemporaneo, un luogo (o forse un non-luogo) in cui la già gloriosa letteratura d'oltralpe non conta più nulla. Gli americani, piuttosto che scrittori francesi, preferiscono leggere scrittori cinesi e indiani. Oggi Parigi è per tutti solo una meta turistica, non la capitale culturale che fu nel diciannovesimo secolo e in parte del ventesimo.

A proposito di '800, Millet considera Dumas e Zola precursori della postletteratura: il primo perché scrittore poco autoriale, quasi industriale, che delegava parte del lavoro ai cosiddetti

«negri» come oggi i bestselleristi delegano parte del lavoro agli editor, il secondo perché «positivista, buono, efficace, commerciale», insomma progressista e di sinistra proprio come il romanziere medio dei giorni nostri.

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