Ma nel terzo millennio anche l'Occidente è una "Terra inquieta"

L'arte torna a interrogarsi sulle emergenze del pianeta Concentrandosi solo su ciò che accade lontano da casa

Ma nel terzo millennio anche l'Occidente è una "Terra inquieta"

Ma siamo davvero sicuri che le terre inquiete del nostro presente, oltre ai luoghi più miserevoli del mondo, non siano anche le grandi metropoli occidentali, in primis Parigi, poi Londra, Bruxelles e Berlino, in cui ogni giorno il terrorismo, cresciuto nelle periferie e sviluppatosi tra i figli di immigrati nati in Europa, minaccia la libertà e la vita di cittadini comunque democratici? Città che sono lo specchio evidente del fallimento di parole come «coesistenza» e «integrazione», teatri di scontri sempre più violenti di concezioni radicalmente opposte sui principî fondamentali dell'esistenza, tra chi utilizza la religione e la fede come bene comune e chi se ne fa scudo per la violenza politica e la sopraffazione dell'altro?

Certo, fino a non molto tempo fa l'arte e la cultura svolgevano quel ruolo rabdomantico rispetto alla realtà, prevedendola, anticipandola, talora persino esorcizzandone gli aspetti più devastanti. Già l'11 settembre interruppe tale processo, ma poi l'escalation di morti, quell'assuefazione al male che potrebbe arrivare da ogni parte ma si sa che prima o poi arriva, il fantasma di quella sottomissione (soprattutto demografica, questa la vera guerra) di cui ha scritto lucidamente Michel Houellebecq, hanno drasticamente ridotto la capacità di immaginare scenari altri che non siano quelli drammatici che abbiamo sotto i nostri occhi.

Nell'anno della caduta del Muro di Berlino, 1989, il Centre Pompidou inaugurava «Magicien de la Terre», la prima mostra che aveva messo a confronto l'arte dell'Occidente ipercivilizzato con sconosciuti artigiani dell'Africa, dell'Asia minore, dell'Oceania, sorprendendoci per la freschezza ingenua delle loro proposte. Poi, nel 1993, quando si cominciava a parlare insistentemente di globalizzazione, sia la Biennale di Venezia che quella del Whitney a New York scoprirono l'impatto travolgente degli altri mondi, in un irragionevole ottimismo per cui ci era sembrato davvero possibile vivere tutti in pace sotto lo stesso tetto (il nostro, ovviamente) al netto di un po' di tolleranza reciproca. E anche «Cocido y Crudo», al Reina Sofia di Madrid fra 1994 e 1995, secondo l'assunto antropologico di Claude Lévi-Strauss, ci diceva che l'arte del futuro avrebbe realizzato la piena coesistenza tra il cotto, prodotto sofisticato dell'Occidente, e il crudo, la forza dello stato di natura. Non è andata proprio così.

Non so quanto sia la ragione del politicamente corretto, o quanto a questo punto l'improbabile senso di colpa, ma chi si sforza di interpretare i devastanti segnali di neppure vent'anni del nuovo millennio, trasferisce lo sguardo altrove, lontano da casa sua. Massimiliano Gioni è tra i curatori più bravi di oggi. Molto colto, non si accontenta di firmare liste di celebri artistar e preferisce interrogarsi su questioni assai più spinose. Dopo la Biennale del 2013 ha proposto al New Museum di New York «Here and Elsewhere», una mostra sull'arte araba contemporanea. Tanto bella quanto minacciosa. Nessuno degli oggetti e delle opere esposte lasciava intravedere un solo spiraglio di conciliazione. Questo è un fatto.

Apre oggi «La terra inquieta», ospitata dalla Triennale di Milano e coprodotta con la Fondazione Trussardi, di cui Gioni è direttore artistico, fino al 20 agosto. Una grande mostra, 65 artisti da tutto il mondo, destinata a far discutere e non certo per la qualità delle opere. Il nostro pianeta, nel XXI secolo, è diventato il luogo dell'instabilità e della diseguaglianza. La (fallita) trasformazione globale, le guerre, l'immigrazione, la crisi dei rifugiati, gli esodi, le catastrofi naturali e ambientali, stanno disegnando uno scenario esplosivo ormai incontrollabile, soprattutto in quei territori solo apparentemente marginali, come la Siria o Lampedusa. Se l'arte e la cultura hanno ancora (ma ce l'hanno?) la capacità di farsi politica, allora «La terra inquieta» vorrebbe tracciare un percorso capace di dare voce e dignità a quelle moltitudini in silenzio. L'artista, dunque, si fa testimone della storia in presa diretta, chiamandosi al senso di responsabilità, come un reporter, ma senza il gusto per l'immagine scioccante dei media, senza l'estetizzazione della miseria; una specie di nuova militanza e di attivismo al fine, alquanto utopistico, di far dialogare culture non solo diverse, incompatibili perfino.

La lista degli artisti è ottima.

Buona parte di loro appartiene al jet set internazionale di gallerie, musei, grandi collezioni. Loro sì al riparo dalla realtà, riescono persino a ignorare che quel che brucia è davvero qui, a pochi passi (troppo pochi) da noi.

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