Le Partigiane liberali che lottarono per un'Italia non rossa

Lo studio di Rossella Pace racconta un pezzo di Resistenza dimenticata. E non per caso

Le Partigiane liberali che lottarono per un'Italia non rossa

Segretario Generale dell'Istituto Storico per il Pensiero liberale Internazionale e allieva del compianto Fabio Grassi Orsini - al quale si deve l'imponente Dizionario del liberalismo italiano, 2 vol. Ed. Rubbettino 2011 e 2015 - Rossella Pace, con il nuovo saggio, Partigiane liberali. Organizzazione, cultura, guerra e azione civile (Ed. Rubbettino), prosegue la ricerca iniziata con La Resistenza liberale nelle memorie di Cristina Casana (Rubbettino 2018), già recensita su queste colonne. Competenza filologica e passione intellettuale sono qualità della studiosa che escono qui pienamente riconfermate.

Grazie a una meticolosa e completa esplorazione degli archivi, delle memorie, dei diari, dei documenti più vari, Rossella Pace ricostruisce un ambiente culturale e politico resistenziale che la storiografia aveva rimosso. È la Resistenza delle donne, in genere, e la Resistenza delle donne liberali che tanta parte ebbe nel destino della Resistenza liberale. «La Resistenza, in quanto lotta armata, fu vissuta essenzialmente come una esperienza maschile. Le donne che vi parteciparono nella loro differente appartenenza politica furono molte di più di quante siano state poi riconosciute come partigiane, e il loro ruolo è stato taciuto per molto tempo». Le partigiane combattenti furono 35mila e 70mila fecero parte di quelle reti che assicuravano ai partigiani importanti supporti logistici, assistenza sanitaria, rifornimento di armi e di vettovaglie, sostegno alle famiglie, passaporti e lasciapassare falsi. In questa opera, si distingue l'eroina della storia in esame, Virginia Minoletti Quarello, grande figura di donna liberale che, in Liguria e in Lombardia, svolse un compito fondamentale di raccordo, anche politico, tra le più eminenti figure del liberalismo italiano, dal mitico comandante Edgardo Sogno ad Anton Dante Coda (il cui diario, scritto tra il 1946 e il 1952, si può leggere nel bellissimo libro Un malinconico leggero pessimismo -Ed. Olschki - di Gerardo Nicolosi, altro degno allievo di Fabio Grassi Orsini). Virginia Minoletti scrisse un libro di memorie Via privata Siracusa (1946) - ripubblicato da Ultima spiaggia, collana Isole, nel 2016 -in cui rievocò la sua attività negli anni difficili della RSI ma, grazie allo scavo negli archivi di Rossella Pace, emerge un quadro della sua personalità, del suo impegno civile, della sua filosofia politica assai più completo ed esauriente. La cifra della Minoletti, e del cenacolo liberale di cui fu animatrice era duplice: un patriottismo sincero di matrice risorgimentale e un senso altissimo, einaudiano e crociano, della libertà politica unito a un femminismo autentico che rivendicava il diritto delle donne alla pari dignità e la loro piena idoneità a svolgere le funzioni sociali e politiche riservate per tradizione al sesso maschile.

«Il Partito liberale, scrive l'autore, diede molti uomini e donne alla lotta di liberazione, i quali ricoprirono un ruolo attivo fin dall'inizio del movimento resistenziale». Come mai, si chiede allora, fu quasi l'unico partito a non ammantarsi di benemerenze resistenziali? Rossella Pace fa bene a illuminare una zona della storia della Resistenza rimasta in ombra ma quella che lei considera quasi una colpa dei liberali - non tanto l'aver quasi ignorato il contributo delle donne liberali alla lotta antifascista, e (su questo ha ragione, quanto la messa in sordina dello stesso apporto liberale - a ben riflettere, aveva una motivazione civile che oggi comprendiamo sempre di più. «La memoria della partecipazione dei militanti liberali alla Resistenza - si legge nelle Conclusioni del libro - divenne per molti versi imbarazzante, troppo divisiva, e venne quindi raccontata poco, male, in maniera rapsodica, se non spesso addirittura abbandonata da molti protagonisti (i Minoletti tra questi) a causa della loro delusione per l'esperienza politica successiva». In realtà, per i liberali - se dalla categoria si escludono gli ossessi di azionismo come Franco Antonicelli - la legittimità della Resistenza stava nella restaurazione delle libertà civili e politiche conculcate dalla dittatura fascista. Compiuto il loro dovere, combattendo in montagna e cospirando in città, pensavano a una grande riconciliazione nazionale, in grado di assicurare il beneficio della democrazia anche a quanti - spesso in buona fede - avevano creduto nel duce e nelle sue promesse. Con i suoi umori rivoluzionari e palingenetici, l'antifascismo azionista, socialista, comunista, consapevolmente o no, avrebbe voluto, invece, protrarre sine die la guerra civile, fino alla rigenerazione morale, politica e sociale di un paese corrotto dall'esecrato ventennio. Era difficile, per un liberale, identificare la legalità democratica con la legittimità antifascista e ritenere la volontà espressa dal demos (che nel dopoguerra mostrava attitudini moderate e conservatrici) valida solo se in linea con le direttive ideali dell'ANPI, come si pretese nelle gloriose giornate del giugno 1960. Debbo dire, però, che anche tra i socialisti riformisti il mito della Resistenza aveva poca presa. L'indimenticabile Giuseppe Faravelli, successore di Ugo Guido Mondolfo alla direzione di Critica Sociale, era quasi infastidito quando gli si ricordavano i tanti anni passati in galera per la sua attività antifascista. Un Paese civile non dimentica la storia ma non sta sempre lì a esaltare i vincitori di una guerra civile e a processare i vinti.

Ho l'impressione, che Rossella Pace, a forza di frequentare gli Istituti Storici della Resistenza, tenda a sopravvalutare «il contributo dei partigiani alla vittoria alleata in Italia», a suo avviso, notevole e al di là delle «più ottimistiche previsioni». Che senza le «vittorie partigiane non vi sarebbe stata in Italia una vittoria alleata così rapida, così schiacciante, e così a poco prezzo» è una citazione che poteva trovare solo sul sito www.anpi.it/storia/storie-della-resistenza-italiana.

Forse citare fonti più realistiche sarebbe stato più prudente. Questo rilievo e altri che si potrebbero fare al libro (come la confusione tra Giovanni Battista Canepa e Giuseppe Canepa) non tolgono nulla, però, ai meriti acquisiti dalla giovane ricercatrice.

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