Pasolini, vita e pensiero controcorrente di un (im)moralista rimasto senza eredi

Nuova edizione rivista per il libro dell'americano Schwartz sul poeta

Pasolini, vita e pensiero controcorrente di un (im)moralista rimasto senza eredi

«Qual è il suo dolore più grande?» chiede Enzo Biagi a Pier Paolo Pasolini durante una trasmissione tv del 1971. «La morte di mio fratello», risponde PPP. «Soprattutto il dolore di mia madre alla notizia della morte di mio fratello». Siccome gli assassini erano stati i comunisti, per quale ragione Pasolini - pur cacciato per «indegnità morale», odiato dal partito sin dai tempi di Togliatti che lo definiva «un pederasta che ci sporca» ha continuato fino alla fine a dirsi un comunista «profano, ma perdutamente fedele»?

Guido aveva 19 anni, era partito da Casarsa per aggregarsi ai verdi della brigata Osoppo sulle Prealpi carniche e lassù si era subito distinto per coraggio nell'azione e nella parola. Un giorno uno della Garibaldi, partigiani comunisti che lavoravano con l'avvallo di Togliatti - al passaggio del Friuli alla Jugoslavia di Tito, punta la pistola alla tempia di Guido perché gli ha urlato in faccia (lo racconta in una lettera all'amato fratello maggiore) «tu non sai che cos'è un uomo libero, per te si è liberi solo di parlar bene del comunismo, ma noi siamo italiani e combattiamo per la bandiera italiana non per il tuo straccio rosso». Dopo pochi giorni Guido, nome di battaglia Ermes, sarà tra i 17 ragazzi eliminati dai gappisti a Porzus, tra loro anche lo zio di Francesco De Gregori. Il 12 febbraio del 1945 75 anni fa - lo massacrano nella fossa.

Eppure solo nel 1950, al capo della federazione di Udine che gli notificava l'espulsione (in seguito allo scandalo per i fatti di Ramuscello, atti osceni e corruzione di minori), Pasolini risponde: «Malgrado voi resterò comunista». Pochi mesi dopo la perdita di Guido aveva scritto all'amico Luciano Serra che il fratello «non ha potuto sopravvivere alla propria grandezza, lui che era migliore di tutti noi. Il suo martirio non deve restare ignoto, la sua colpa è stata di combattere per l'Italia e per la libertà, non per Tito e il comunismo». E nel 1955 dedica la raccolta di liriche regionali Canzoniere Italiano «A mio fratello Guido caduto nel '45 sui monti della Venezia Giulia per una nuova vita del popolo italiano». Come ha potuto il «poeta civile» convivere con il dolore per quel martirio ostinandosi ad aderire al partito che del delitto era responsabile (maggiormente perché rivendicava il proprio marchio ideologico sulla Resistenza), lo stesso partito che lo trattava come un appestato? Per decenni e fino alla morte, per i capataz di Botteghe Oscure, per i chierici di Vie Nuove, il settimanale del Pci, per Franco Fortini, l'ideologo stalinista dei Quaderni Piacentini, il Corsaro è stato bollato come «narcisista», «controrivoluzionario», «nostalgico». Un rapporto, quello tra PPP e il Pci, che è il vero giallo nella vita del più contraddittorio intellettuale della seconda metà del Novecento e l'unico di quella lunga stagione di dogmatismo e conformismo militarizzato ad avere superato per meriti artistici e non ideologici - la prova del tempo, con profezie che lo rendono così attuale da prestare la sua voce fuori dal coro del politicamente corretto contemporaneo. Un mistero ancor più grande della sua fine all'Idroscalo di Ostia.

Le 750 pagine di Pasolini Requiem (La Nave di Teseo), nonostante si tratti della riedizione - pur aggiornata e arricchita di nuovi preziosi documenti - della celebre biografia scritta dall'americano Barth David Schwartz, aiutano il lettore a trovare indizi preziosi, come l'incompatibilità, forse l'odio, del giovane Pasolini nei confronti d'un padre - colonnello fascista - dispotico e ottuso, così come la necessità istintiva d'una qualche devozione, fosse quella della tradizione religiosa paesana della madre, solo amore della vita, o quella per l'unica chiesa ideologica. Ciò che però il libro ci svela è come oggi, con un conformismo culturale ortodosso che non fa prigionieri, a Pasolini lo scandalo sarebbe concesso solo fuori dal recinto progressista, con un definitivo coming out di anarco-conservatore. Anzi, l'ossessiva opposizione all'«idolatria del nuovo» e l'abrasiva «dedizione alla franchezza» lo iscrivono a posteriori alla reietta tribù reazionaria.

Chi oggi potrebbe definirsi di sinistra e dalla sinistra postcomunista essere anche solo tollerato quando giudica l'aborto la «legalizzazione dell'omicidio», la propria omosessualità un «peccato», un «nemico», un «calvario privato», auspica l'affermazione della «destra sublime che è in tutti noi» e accusa la Chiesa che insegue il moderno di «alto tradimento spirituale»? Dove starebbe oggi e che cosa ci direbbe questo immorale moralista?

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