L'idea è semplice e intelligente. Eletto dopo la morte di Claude Lévi-Strauss alla poltrona numero 29 dell'Académie Française, lo scrittore franco-libanese Amin Maalouf (autore di quel capolavoro che è Gli scali del Levante) decide di raccontare la storia della poltrona 29 dalla fondazione dell'Académie, ossia dai tempi di Richelieu e di Luigi XIII ai nostri giorni. Nella certezza che ne uscirà non solo una galleria di ritratti curiosi e accattivanti - sia che si tratti di personaggi celebri sia che, viceversa, il loro nome sia stato dimenticato - ma anche una storia culturale e politica della Francia vista da una prospettiva inconsueta. Nasce così Una poltrona sulla Senna (La nave di Teseo, pagg. 358, euro 21, traduzione di A.M. Lorusso). Maalouf concepisce la scrittura (ed è quello che più amo in lui) come un atto di conoscenza, e lo stile come un suo servitore ironico, ma umile e leale. Il libro che ne risulta è piacevolissimo e di estremo interesse per diverse ragioni che qui provo a elencare.
La prima è che questi ritratti sono, appunto, sempre belli e interessanti. I personaggi risultano ben delineati nella loro personalità, di cui la celebrità o la non-celebrità postume non sono che una coda. Luci e ombre, fortune (e sfortune) meritate o immeritate formano un unico flusso di racconto. L'uomo viene inquadrato da Maalouf senza preconcetti, ricevendo sempre la sua giusta luce. La seconda ragione è che la filigrana del testo ci racconta, non troppo nascostamente e in modo molto originale, un pezzo di storia di Francia. Nelle biografie dei diversi occupanti la poltrona 29 corre la storia dei momenti fondamentali della vita nazionale, dall'ancien régime alla Rivoluzione, da questa al bonapartismo e così via. Non è frequente incontrare un'interazione così naturale, non forzata, lineare e convincente tra Storia e biografia. Maalouf non perde tempo con gli inquadramenti storici o con le interpretazioni: gli è sufficiente conoscere i documenti e dare voce a quell'atto di suprema, imparziale simpatia per l'uomo che è la Letteratura.
Ma c'è un terzo motivo di interesse, forse il maggiore di tutti. Maalouf ci dà conto della storia di un'istituzione culturale, figlia di quella République des Lettres di cui parla Marc Fumaroli, che ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo della lingua letteraria francese. Essere avvezzi a fare un uso ufficiale della lingua ha portato a sviluppare un ordine (della prosa, della sua chiarezza, fino all'uso sapiente delle tonalità, ivi inclusi l'ironia, il sarcasmo e la polemica velenosa) che riluce nell'espressività linguistica francese e manca in quella italiana. La mancanza da noi di istituzioni paragonabili all'Académie, la natura giocoforza elitaria (e quindi poco incisiva, oppure incisiva ma in senso opposto, secondo l'amara legge dell'eterogenesi dei fini) dei nostri Lincei o della Crusca, hanno reso difficile da noi il prodursi di una prosa «media» nazionale, tanto che questa prosa è stata prodotta, così dicono, dalla televisione.
Frottole. Non è nata nessuna prosa, ma solo una lingua maleducata e inelegante, incapace di trasformare in stile l'elogio o la malevolenza e trasformandoli semplicemente in piaggeria o in insulto. Ma questa non è sincerità, è solo ignoranza dovuta a un destino nazionale assai differente e comunque più povero. Per questo è così maledettamente difficile tradurre in italiano una lingua in apparenza simile ad esso come il francese.
Maalouf, viceversa, ci testimonia - attraverso gli elogi, gli epigrammi, le epistole, i pamphlet e le infinite polemiche dell'Académie - come anche la turbolenza di un Paese, le sue diverse fazioni, le sue vicende spesso drammatiche possano trasformarsi in una lingua per tutti, non alta o bassa ma semplicemente media. Noi non ce l'abbiamo, ed è un grosso problema per tutti: scrittori, giornalisti, gente della tv e gente comune.
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