Il tempo delle sfide non invecchia mai. Ed è con l'audacia della giovinezza che Pier Luigi Pizzi, alla bella età di 90 anni, ha accettato la più inattesa delle prove. Inaugurare il Festival di Spoleto con una regia dell'Orfeo di Monteverdi limitata (o piuttosto esaltata?) dalle regole anti-covid. Maestro ineguagliabile di stile e bellezza, più attivo e creativo che mai, il decano dei grandi registi lirici non ha dubbi. Questa sfida può essere vinta.
Maestro: come avete deciso di andare avanti e debuttare, nonostante tutto, il prossimo 20 agosto?
«Inizialmente avremmo dovuto inaugurare con l'Orfeo monteverdiano nella rilettura di Luciano Berio, che già affrontai nell'84 a Firenze. Poi, costretti come tutti a reinventare i nostri progetti, abbiamo pensato: perché non l'Orfeo originale? Ha una struttura perfetta per il distanziamento sociale: pochi personaggi in scena, un'orchestra di appena 18 elementi, e per fortuna saremo all'aperto, nella piazza del Duomo».
E poi l'Orfeo offriva anche altre simboliche valenze.
«Certo: coincide con la nascita stessa del melodramma, più di quattrocento anni fa. Dunque, in quello che è un po' l'anno zero per tutti noi, ha il sapore della ripartenza. Non basta: è la storia di una separazione, di una distanza: quella che divide fra loro due giovani innamorati, un semidio ed una fanciulla d'ideale bellezza, che appena uniti sono subito separati dalla morte. Anche per questo, in giorni in cui la morte ha spezzato all'improvviso tanti legami, mi sembra una scelta non banale nè ovvia, ma anzi carica di significato».
Lei è celebre anche per le fastose reinvenzioni moderne del teatro barocco. Sarà cosi' anche stavolta?
«Non proprio. Viviamo un momento che mi sembra richieda austerità e rigore, valori etici ed estetici. I compiacimenti barocchi sarebbero fuori luogo. E poi più vado avanti più sento aumentare in me il bisogno di semplificare, di essenzializzare tutto. Cosi stavolta il '600 lascerà il posto ad una dimensione metafisica: i cantanti non indosseranno costumi ma semplici abiti. A parte un funzionale dispositivo, avremo come sfondo la splendida piazza del Duomo, su cui si affaccia il teatro Caio Melisso. È da qui che, all'inizio dello spettacolo, vedremo uscire gli orchestrali seguiti via via dal coro e dai solisti, avviati all'esecuzione dell'opera negli spazi a loro destinati. Nessuna pretesa di attualizzare un mito , che vive fuori dal tempo, al di là del momento storico in cui lo si rappresenta».
A proposito di attualizzare: come giudica la linea, ormai predominante nelle regie liriche, e perseguita da suoi colleghi -di volta in volta osannati o stroncati- come Emma Dante, Damiano Michieletto , Robert Carsen, di cambiare sistematicamente epoca e ruoli delle opere?
«La trovo perfettamente legittima. L'ho fatto anch'io, tante volte. Va bene se è rigorosamente motivata e non sistematica. Non conosco abbastanza il lavoro di Emma Dante per esprimere giudizi. Fin dall'inizio seguo Damiano Michieletto, di cui apprezzo il sicuro senso del teatro, anche se non sempre condivido le sue scelte. Ho amato molti spettacoli di Carsen, quello che più di tutti segue una linea coerente, con risultati eccellenti. A parte loro, ce ne sono altri, tanti altri. Ma c'è anche molta confusione, tra chi il teatro lo sa fare, e chi pasticcia».
Settant'anni di carriera. Applaudito, premiato, acclamato ovunque: qual è il sogno irrealizzato di Pier Luigi Pizzi?
«Il cinema. All'inizio della carriera l'ho fatto come art-director, scenografo, costumista, ma trovavo il set profondamente noioso. E spesso deludente.
Se non sei il regista non puoi avere il pieno controllo del tuo lavoro: basta un taglio al montaggio, e di colpo tante idee e ore di lavoro vengono vanificate. Allora ho provato con la regia. È andata peggio: nel cinema per ogni progetto devi avere molto tempo davanti per superare difficoltà, rinvii, compromessi. Avevo altri impegni e non ho avuto la pazienza di aspettare».
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