Cala il sipario sul sessantaduesimo Festival di Spoleto, assieme al sole che domani tramonterà sulla sua magnifica piazza del Duomo, alle spalle dell'orchestra del Teatro dell'Opera di Roma e davanti ad una delle bacchette più richieste e ammirate del panorama musicale internazionale. Daniele Gatti.
Per tradizione al Concerto in Piazza si eseguono musiche sacre. Lei invece proporrà brani orchestrali e corali tratti dalle opere «francesi» di Verdi: Les Vepres Siciliennes, Jérusalem, Don Carlos. Perché?
«Perché gli anni francesi sono stati importanti, nella vita di Verdi. È a Parigi, centro culturale dell'epoca, che s'innamora di Giuseppina Strepponi, questa chiacchierata signora dalle camelie minacciata dalla tisi e con due figli illegittimi, per di più segreti. E soprattutto è a Parigi che, attraverso queste opere, Verdi attua il suo lento e prudente avvicinamento al gusto magniloquente e spettacolare del francese Grand Opéra».
Musica verdiana, che tuttavia resta forse meno popolare presso i melomani verdiani.
«Musica verdiana che esprime maggiormente la raffinatezza e l'eleganza che, però, sono già tutte nel Verdi più popolare, quello terragno e ruspante. Musica italiana, ma in terra di Francia. Nelle danze dei Vepres ci sono echi di Berlioz, sonorità alla Auber; eppure resta sempre musica italiana. Perché Verdi era un drammaturgo in musica; non un musicista che mette in scena un libretto, come Meyerbeer. E poi i brani di Spoleto faranno da antipasto ai Vepres con cui, il 10 dicembre, inaugureremo il teatro dell'Opera di Roma».
Del quale lei è stato nominato nuovo direttore musicale, e nel quale tornerà a dirigere altre tre volte.
«A gennaio 2020, dopo 30 anni di opere tormentate e corrusche, con I Capuleti e i Montecchi ritroverò finalmente l'incantevole purezza del belcanto belliniano. Mentre ad ottobre 2020 due titoli del neoclassicismo di Stravinskij - The Rake's Progress e Oedipus Rex - idealmente si collegheranno col classicismo vero, quello dell'Idomeneo mozartiano, opera inaugurale della stagione 2020-2021».
Lei ama molto il repertorio novecentesco. Trova che il gradimento del pubblico, in proposito, sia mutato?
«Se il pubblico va ancora oggi a vedere Traviata come fosse solo una collezione di romanze famose, aspettando l'acuto del proprio idolo come si aspetta un calcio di rigore, e poi si sbraccia per farlo vincere all'applausometro, non ha capito che Traviata è un'opera scomoda, provocatoria. Ignorarlo significa ucciderla, farla diventare routine. Le opere del '900, invece, scomode e provocatorie lo sono in modo esplicito. Spingono alla riflessione, alla discussione; ai fischi anche - perché no? Non sono mai routine».
A proposito di fischi: come si trova a lavorare con i più famosi - e contestati - registi d'opera contemporanei?
«Ci lavoro gomito a gomito, passo dopo passo. Con Daniele Abbado abbiamo cominciato a concepire Rigoletto un anno e mezzo prima. Quando gli ho confidato che dentro quella musica sentivo la bassa padana, lui ha immaginato i colori terrosi dello spettacolo. Quando ho suggerito che in scena ci fosse la nebbia, lui ci ha messo anche dei lampioni, per aumentarne la suggestione. È insieme, che si crea».
Ed è anche insieme che si affrontano le critiche. Le bruciano ancora quelle che accolsero la Traviata alla Scala nel 2013, con Diana Damrau che impastava le tagliatelle e Piotr Beczala che affettava zucchine?
«Siamo al solito discorso. Violetta non è una romantica eroina; è la vittima di una società bigotta, che l'amore di Alfredo rende finalmente felice. E la felicità sta anche nelle piccole cose: nell'impastare tagliatelle, nel cucinare zucchine. Le innovazioni possono piacere o meno. L'importante è che siano oneste».
E un progetto effettivamente innovativo, cui lei è molto legato, è l'orchestra La Fil.
«Io la chiamo la Nazionale Sinfonica.
I migliori ventiquattro elementi delle migliori orchestre italiane, da Santa Cecilia alla Rai, dalla Scala al Maggio, uniti a giovani con mani meravigliose, ma ancora senza contratto, che suonano insieme, a Milano. Un altro modo di fare musica che è gioia assoluta».
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