I due più bei ritratti di Ezra Pound e T.S. Eliot sono quelli che Wyndham Lewis dipinse negli anni Trenta. Nel primo, oggi alla Tate Gallery di Londra, il poeta giace serenamente addormentato su uno sfondo acqua marina; nel secondo, oggi a Durban, in Sud Africa, il poeta è impassibilmente sveglio, mentre nubi oscure lo circondano. Intorno a quest'ultimo quadro, a Londra infuriò la polemica allorché Lewis decise di presentarlo alla esposizione primaverile della Royal Academy, un bazar del commercio e insieme la trincea del tradizionalismo conformista. Lewis era stato il campione del modernismo in patria, ma l'aver scelto di sottoporsi al comitato selezionatore con il più classico dei generi pittorici equivaleva a una sfida. Se veniva accettato, voleva dire che anche il nuovo poteva far parte della tradizione: se rifiutato, voleva dire che il problema non era il dipinto, ma il suo autore. La Royal affidò il suo «no» all'oratoria di Winston Churchill che nella sua triplice veste di uomo politico, pittore della domenica e amico del museo incarnava con il massimo del potere il minimo di giudizio critico-artistico: «Il compito di una istituzione come questa non è quello di correre selvaggiamente dietro l'attualità». Nelle prese di posizione che questa bocciatura scatenò, il commento più ironico e più profondo fu quello dello stesso Eliot, che essendo il soggetto del ritratto si era ritrovato a sua volta bocciato, sia pure per interposta persona e opera: «Non ho adesso alcun desiderio - scriverà a Lewis - di essere dipinto da qualche pittore di cui la Royal Academy accetterebbe il mio ritratto».
Lewis, Pound e Eliot si erano conosciuti quando ancora la Prima guerra mondiale non era scoppiata, e rimasero fedeli alla loro amicizia finché vissero. In un bel libro che si chiama L'età di Pound, Hug Kenner ha messo bene in evidenza che cosa fosse per un artista di genio lottare contro il conformismo del proprio tempo e le durezze della vita quotidiana. È difficile trovare un trio più rappresentativo della modernità novecentesca e insieme più refrattario al contingente, al compromesso, al commercio. Venne fatta più di una colletta fra amici per consentire a Eliot di lasciare l'impiego in banca e la depressione che questo gli suscitava e poter vivere della sua poesia; ci fu più di un mecenate intorno a Pound e Lewis, senza però che mecenatismo facesse rima con confortismo-conformismo. Nessuno dei tre fu mai disposto a barattare la propria arte con la tranquillità di una vita borghese e ciascuno a suo modo, messianico in Pound, rabbioso in Lewis, glaciale in Eliot, affrontò il mondo che lo circondava.
Dei tre, l'affinità maggiore è quella fra i due poeti e bene ha fatto Filippo Tuena a metterla in risalto, isolandola, rispetto al carattere e alla figura del terzo, e in fondo più iconoclasta, artista del gruppo. Il risultato di questa scelta è La voce della Sibilla (il Saggiatore, pagg. 268, euro 19), che è un libro ambizioso per più di un motivo: non è un saggio critico, non è una biografia romanzata, ma il tentativo di raccontare come nasce un poeta ripercorrendone da un lato la giovinezza, dall'altro l'impatto con quella che allora era la capitale riconosciuta della poesia come della letteratura e dell'arte in generale, Parigi, in parole povere. Tutto ciò evita al libro lo specialismo della critica e permette al suo autore un gioco di rimandi, anche personali, incrociati, ben sintetizzato da quella frase di Ernest Hemingway presente in quel cantico d'addio che è A Moveable Feast: «Se sei stato abbastanza fortunato di vivere da ragazzo a Parigi, poi dovunque andrai per il resto della vita, rimarrà con te, perché Parigi è una festa mobile».
Eppure, io non sono così sicuro, come lo è Tuena, del ruolo capitale che questa città ha per Eliot, di là dall'averla vista per la prima volta a vent'anni, quando è ancora un ragazzo timido e solitario, di là dall'esserci tornato più volte e sempre con nuove aspettative e, soprattutto, di là dal fatto che è proprio a Parigi, in quella che si può definire l'officina-abitazione di Zeus-Pound che avverrà il parto, tagli, suture, medicamenti eccetera di quella Terra desolata che lo incoronerà poeta della sua generazione.
In realtà, Parigi appartiene a Pound, come del resto a Hemingway, perché è nelle loro corde di cowboy e/o pirati americani che vogliono imporsi al mondo ed essere colonizzatori del nuovo in quello che per loro resta il Vecchio continente. A Eliot succede quello che succederà anche a Lewis, il meno affine poeticamente, lo abbiamo detto, eppure il più affine nell'intimo, pur nell'assoluta diversità dei caratteri. Entrambi sono artisti a dispetto del mondo: non vogliono conquistarlo, vogliono gelosamente preservarsi dal contatto, curare internamente le proprie nevrosi, testimoniarle quasi, non liberarsene nel flusso della vita, nel cosmopolitismo intellettuale. Non è un caso che né l'uno né l'altro se ne andranno mai da Londra, se non, ma è soltanto il caso di Lewis, allo scoppio della Seconda guerra mondiale
E non è un caso che da Parigi alla fine se ne andrà proprio il più parigino fra loro, quel Pound che l'eccesso di concorrenza, nuovi poeti, nuove correnti artistiche, nuovi manierismi intellettuali, pone sulla difensiva, privato com'è di quella primazia di battitore libero e di apripista che era stata la sua.
Leggendo La voce della Sibilla si scoprono molte intuizioni interessanti, che inquadrano meglio il rapporto proficuo quanto complesso che lega Eliot a Pound. Un rapporto, puntualizza Tuena, che è «la celebrazione della fiducia verso il più esperto che corrisponde però alla perdita di sicurezza e alla riduzione dell'autostima». In quest'ottica viene alla mente la replica piccata dell'altro componente il terzetto, il solito Lewis, ai tentativi di Pound di indicargli la strada giusta. «Non sono docile come Eliot», gli risponde. Eppure questa «docilità» può essere anche una prova di maturità, come sottolinea, per esperienza personale, ancora Tuena, correggendo in parte quanto prima riportato: «Quel che mi sembrava tabù nei miei trent'anni, oggi lo concederei a cuor leggero. Siamo molto più rigidi, molto più resistenti in gioventù. La maturità smussa gli angoli, attenua le obiezioni, appiana le divergenze». Quando scrive La terra desolata, Eliot di anni ne ha 34, è colmo di angoscia e di poesia, è uno scrittore in costante lotta con sé stesso, introverso e sprezzante, consapevole della propria grandezza e però già maturo per sottoporla alla verifica di chi si fida.
Prendiamo, per esempio, l'esergo che avrebbe dovuto aprire La terra desolata. Quello alla fine scelto è dal Satyrcon di Petronio ed è il lamento della Sibilla: «E dunque l'ho vista la Sibilla a Cuma con questi miei occhi, sospesa nell'ampolla e i ragazzi che le dicevano: Sibilla cosa desideri? E lei rispondeva: Voglio scomparire». La scelta iniziale, che aveva però lasciato perplesso Pound, era da Cuore di tenebra di Conrad: «Rivisse la vita in ogni dettaglio di desiderio, tentazione e sconfitta durante quel momento supremo di totale conoscenza? Gridò in un sospiro contro un'immagine, contro una visione - gridò due volte, un grido che non era più che un sospiro- Orrore! Orrore!».
Tuena dà ragione a Eliot, quest'ultima citazione è più incisiva, «la voce del viandante di La terra desolata non è dissimile dal narratore Marlow» e insomma il tramonto infuocato sul Tamigi e la risalta del fiume Congo raccontano la stessa cosa. E tuttavia, aggiunge, «anche Pound aveva ragione. Il brano del Satyricon è più efficace in termini generali» e in fondo il piagnisteo della Sibilla che apre il libro risponde al piagnisteo «una lagna, non uno schianto» dell'Eliot successivo, quello degli Uomini vuoti. Insinuandogli il dubbio, Pound aveva visto dentro Eliot meglio dello stesso Eliot.
La dedica a Pound come «il miglior fabbro» apposta allora a mano nella copia inviata all'amico, Eliot non la mette né nella prima né nella seconda edizione di La terra desolata. Apparirà solo nel 1925, nell'edizione Poems 1909-25, uscita appunto in quell'anno. Era, se si vuole, una citazione di ritorno, da Pound fatta conoscere a Eliot attraverso Dante.
Nello stamparla e renderla pubblica quest'ultimo dava insomma «la testimonianza tangibile di un interesse, di una comunanza di intenti e passioni». «Condividere è sempre un bene, ricordatelo» dice Tuena al suo alter ego presente in tutto il libro. E anche qui, ha ragione.
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