Se chi acquista l'opera è più importante dell'opera

Il rapporto tra arte e denaro è sempre stato stretto. Ma oggi il secondo vale più della prima

Se chi acquista l'opera è più importante dell'opera

Cinquantotto milioni (virgola 4) di dollari per Balloon Dog (Orange) di Jeff Koons; 142,4 per Three Studies of Lucien Freud, il trittico dipinto da Francis Bacon nel 1969; 26 milioni per nove parole SELL THE HOUSE SELL THE CAR SELL THE KIDS - quelle che compongono Apocalypse Now di Christopher Wool.

Record d'asta roboanti, destinati presto a essere battuti da altri straordinari risultati perché «sono le enormi somme di denaro che inondano il mondo dell'arte, in gran parte spese in una caccia al migliore investimento». Lo sostiene Donald Thompson, studioso di economia e marketing, già docente a Londra, Harvard e Toronto, che dieci anni fa pubblicando Lo squalo da dodici milioni di dollari (Mondadori) puntò il dito su trattative e prezzi sempre più esplosivi nell'art market. Una folle corsa per niente rallentata dalla crisi, anzi i ricchi lo diventano sempre di più e in fondo si sta parlando di poco più di duemila persone al mondo. Il suo nuovo libro è appena uscito anche in Italia: Bolle, baraonde e avidità (Mondadori), una traduzione che riprende il sottotitolo originale e riproduce in copertina la scultura di Koons, il cagnolone d'acciaio sagomato come un palloncino, esiste in cinque versioni, la cui battuta da Christie's nel 2013 ha fatto registrare l'ennesimo top price per il discusso artista americano.

La lettura di Thompson è inizialmente gradevole, documentata con tanto di nomi e cognomi dei multimilionari disposti a tutto pur di circondarsi di quel lusso percepito dagli altri come irraggiungibile. Eppure pagina dopo pagina questo libro provoca un effetto strano, una vera e propria crisi di rigetto tanto che avresti voglia di lanciarlo dalla finestra. Non siamo certo tra quegli ingenui, i non consapevoli, che tra arte e denaro il legame è sempre stato strettissimo. Senza Vollard e Kahnweiler ad alimentarne il mercato, i post Impressionisti e Picasso non avrebbero ottenuto il successo che conosciamo, per non parlare del ruolo di Peggy Guggenheim rispetto alla pittura americana. È altrettanto probabile, anzi lo darei per certo, che tutti questi artisti sarebbero esistiti lo stesso, mentre non si può dire altrettanto per Koons, Murakhami, Hirst che legano la loro fortuna a spregiudicati mercanti e avidi collezionisti. Per non dire dei più recenti fenomeni di «flipping», ovvero il rialzo smisurato in pochi mesi determinato dal passaparola tra persone che contano il successo di pittori come Adrian Ghenie e Oscar Murillo ne è figlio - oppure del «nudge», rinforzo positivo sulla valutazione che consiste ad esempio nell'elencare i proprietari precedenti dell'opera.

C'è come l'impressione che i veri protagonisti di questo tempo siano quei compratori «in prevalenza maschi e appartenenti al mondo finanziario» assurti, per i loro quattrini, al rango di superstar: Steve Cohen, Liu Yiqian, Eli Broad, François Pinault, Dakis Joannou, José Mugrabi. A loro si avvicinano pochissimi mercanti selezionati per supportare il loro gioco, Larry Gagosian, David Zwirner, William Acquavella, e grandi personaggi sono diventati anche i battitori di Christie's, Sotheby's, Phillps.

E gli artisti? Le opere? Questioni pressoché secondarie. Gli altri attori stanno scomparendo, critici e curatori sono costretti a roboanti definizioni per avallare scelte di natura interamente finanziaria. Niente altro che servi di scena. Concedeteci un po' di sana invidia per così tanti soldi, però il sistema dell'arte, come lo descrive Thompson, ci fa ribrezzo.

Abituati a studiare, analizzare, entusiasmarci per il valore intrinseco dell'opera, siamo costretti a gettare la spugna. Quel mondo lì non esiste più, lo registra la fredda scrittura da economista abituata a sciorinare dati su dati. Si diceva un tempo, per la poesia passare più tardi. Ora non più.

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