Tramonto on the road, il primo beat fu il filosofo Spengler

Secondo il professor Allen Ginsberg, l'autore tedesco influenzò il linguaggio di Kerouac

Tramonto on the road, il primo beat fu il filosofo Spengler
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Musealizzare la controcultura sembrerebbe un controsenso. Allen Ginsberg stando ai referti dell'Fbi, che lo spiava perché omosessuale e alfiere dello spinello libero girava con i sandali, indossava improbabili vestaglie orientali, aveva la barba da guru, gemellava il dio Siva a Walt Whitman, e otto anni dopo la morte di Jack Kerouac s'era convinto che la Beat Generation dovesse entrare in università. I santi della dissipazione, i romanzieri lisergici, i bombaroli dello sballo, i «contro tutti» con i controcosi, infine, vollero la cattedra. Dal 1974 Ginsberg «era condirettore della facoltà di Poesia al Naropa Institute a Boulder, Colorado... nell'estate del 1977 decise che era arrivato il momento di tenere un corso sulla storia letteraria della Beat Generation» (Bill Morgan). Certo, la facoltà universitaria è «alternativa» la Naropa University nasce nel 1974 per merito di lama Chögyam Trungpa Rinpoche ma i metodi sono gli stessi: sostituire la piovra della «storia della letteratura» insegnata nelle accademie pontificando una «contro-storia» dal pulpito di una università zen.

Le Lezioni sulla Beat Generation di Allen Ginsberg, raccolte da il Saggiatore come Le migliori menti della mia generazione (pagg. 480, euro 38), sono utili non tanto per capire il movimento letterario che ha squassato gli States per inciso: «L'espressione Beat Generation nacque durante una particolare conversazione tra Jack Kerouac e John Clellon Holmes tra il 1950 e il 1951, mentre si dibatteva sulla natura delle generazioni, rievocando il fascino della lost generation o generazione perduta. Kerouac disdegnava un'idea coerente di generazione e disse: Ah, questa non è nient'altro che una generazione beat... Kerouac si sbarazzò d'un tratto della questione dicendo beat generation! non intendendo con ciò darle un nome, ma lasciarla innominata» ma per capire la forza pubblica, pubblicitaria, pervasiva, tutt'altro che vaga e vagabonda, di Ginsberg&Co. Che poi il Beat entri in università quando ha perduto la spinta letteraria originale e originaria è un fatto; d'altronde, se a narrare l'epopea Beat è il suo Lancillotto il rischio dell'agiografia è plateale.

Più che visionari Don Chisciotte e folli entusiasti sbalorditi dall'abracadabra di un verso, i Beat erano fini intellettuali in cerca di approvazione. Ginsberg, nelle sue lezioni, ricostruisce la genealogia della Beat Generation e le sue fonti, giustificandola sotto il solleone della grande letteratura. Non solo «Charlie Parker, King Pleasure, Thelonious Monk, Dexter Gordon, il bebop dell'epoca che influenzò lo stile ritmico di Kerouac», dunque. I Beat traggono forza dai «classici» del romanzo, a partire da Melville («Gli autori classici erano tutte persone da cui attingevamo io, Kerouac o Burroughs. Per questo ho parlato di Melville») e Dostoevskij («Tutti lo leggevamo, in particolare L'idiota e I demoni. Suggerisco per qualsiasi corso di base sulla Beat Generation di familiarizzare con L'idiota»), poi ci sono Shakespeare, William Blake («Io ebbi delle apparizioni di Blake»), John Milton e Rimbaud, il prototipo dei Beat, fino ai paladini del «modernismo», Thomas Wolfe e James Joyce (Kerouac, giura Ginsberg, fu fortemente influenzato da Finnegans Wake). Tra i testi fondamentali per i Beat, ne spiccano alcuni extracurriculari al politicamente corretto in polpa italica. Ginsberg cita come un mantra Ezra Pound e Louis-Ferdinand Céline («I suoi sono libri basilari, di riferimento attitudinale, oltre che testi di riferimento di prosa per tutta la scrittura di Kerouac e di Burroughs») e riconosce l'importanza fondamentale di Oswald Spengler nella crescita del movimento. Kerouac legge Il tramonto dell'Occidente nel 1945, grazie a William S. Burroughs. Ne è folgorato. «L'opera di Spengler fornì il vocabolario concettuale per forgiare l'idea della Beat Generation» ha scritto Robert Inchausti in un saggio recentemente uscito negli Usa, Hard to be a Saint in the City.

I Beat, insomma, provengono da Spengler più che da Marx, e funzionano come «gruppo», come «collettivo», come «generazione», appunto.

Sono l'ultimo esito degli -ismi del primo Novecento, meno caustici, in fondo (non contestano la storia dell'arte come i maudit, non predicano l'esplosione dei musei come i Futuristi), alfieri di una morale cinica e letale. L'artista solitario vive ai margini del noto, macerato dal suo maledettismo, mecenate del nulla; in coalizione gli artisti ottengono una cattedra e fanno la Storia. Non cambiano il sistema. Ne diventano parte.

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