Yates, le ambizioni non sono mai crudeli quanto la vita

Scritto nel 1984, è il penultimo romanzo dell'autore: sul talento e i compromessi

Yates, le ambizioni non sono mai crudeli quanto la vita

Note ai margini di una vita assente: si potrebbe sintetizzare così Il vento selvaggio che passa, il romanzo inedito (il penultimo tra i suoi scritti) che arriva in libreria per minimum fax. Richard Yates (Yonkers, 1926 Tuscaloosa, 1992), scrittore americano conosciuto soprattutto per Revolutionary Road, in questo libro, uscito negli Stati Uniti nel 1984, ripercorre i temi che hanno caratterizzato tutte le proprie opere: l'ambizione artistica, le velleità letterarie, una società che vive una «età dell'ansia» verso un arrivismo borghese sfrenato.

Richard Yates racconta tutto questo in un romanzo che denuncia il conflitto tra arte e mercato e che è quasi un omaggio al Francis Scott Fitzgerald perché in quegli anni Il Grande Gatsby non era soltanto un romanzo ma un modo di vivere.

Un confronto quello con Fitzgerald (considerato il suo maestro, assieme a Flaubert) che echeggia in tutte le pagine ma, come giustamente scrive nell'introduzione Kurt Vonnegut, Richard Yates era uno scrittore più scrupoloso di Fitzgerald e dotato di una capacità di osservazione ancora più acuta.

Quando nel 1984 Yeats pubblica Young Hearts Crying - il titolo originale è tratto dalla poesia di James Joyce Watching The Needleboats at San Sabba scritta il 7 settembre 1912 mentre osservava un regata a Trieste - le vendite sono scarse. Come tutti i suoi libri precedenti non supera le diecimila copie tanto che viene ribattezzato «uno dei più grandi scrittori meno conosciuti d'America». Protagonista del romanzo è Michael Davenport, laureato di Harvard, il quale prima di entrare in università si era distinto alla fine della guerra come «airforce gunner» (mitragliere di bordo su un aereo B17). L'esperienza di militare segnerà per sempre la sua vita, anche se nel romanzo Yeats la descrive come un semplice rito di crescita.

Il romanzo si avvia poi negli anni '50, quelli della prerivoluzione sessuale e sebbene tutti i vecchi dogmi e il puritanesimo del tempo stiano per disgregarsi, il protagonista si innamora della prima bella ragazza che incontra, Lucy, apparentemente semplice perché lui possa imporsi con il proprio fascino di reduce e intellettuale. In verità, Lucy è un ereditiera che altro non cerca se non la possibilità di fuggire dal mondo convenzionale e borghese dal quale proviene. Siamo nell'America delle opportunità, ma Michael e Lucy rappresentano la generazione degli «indifferenti»: arte e cultura, vernissage e mondanità sono semplici espedienti per fuggire dalla realtà. Come succede in Revolutionary road, anche loro finiscono per piombare esattamente nella realtà che incontrandosi si illudevano di fuggire. Ben presto Davenport diventa prigioniero del matrimonio (la moglie vorrebbe aiutarlo finanziariamente ma lui rifiuta sempre) mentre le sue ambizioni si scontrano con il poco talento. Le lusinghe dei professori che l'avevano incoraggiato ad Harvard sulle sue potenzialità di diventare un vero scrittore si sgretolano. Trova un impiego prima come «copy writer» in un'agenzia di pubblicità e poi come giornalista in un giornale semisconosciuto ma alla moda.

Lui e Lucy cominciano una vita che il Jay McInerney de Le mille luci di New York avrebbe raccontato come una scalata verso il successo sociale e che invece Yates racconta come un'insoddisfazione generalizzata: una sorta di «American Dream» alla portata di tutti che però non porta nessuno da nessuna parte, oltre alla mera facciata mondana.

I Davenport hanno un bambino e dal piccolo appartamento di Manhattan si trasferiscono in una grande casa nei sobborghi. Michael tutti i giorni prende il treno pur di non abbandonare i propri sogni di artista e proprio in queste pagine Richard Yates dimostra tutta la propria bravura nel descrivere i personaggi più diversi, solitamente ai margini del successo, dando loro la dignità della speranza. Anche se la vera eroina del romanzo è Lucy: perché è la prima volta che Yates descrive un personaggio femminile (nei precedenti romanzi il suo ideale era quello materno) come una donna indipendente e capace di resistere al suo prepotente egocentrismo da artista fallito.

Anche se alla fine la morale è quando scrive: «È come se tutti si fossero tacitamente accordati per vivere in uno stato di perenne illusione. Al diavolo la realtà.

Dateci un bel po' di belle stradine serpeggianti e di casette dipinte di bianco, rosa e celeste; fateci essere tutti buoni consumatori, fateci avere un bel senso di appartenenza e allevare i figli in un bagno di sentimentalismo e se mai la buona vecchia realtà dovesse venire a galla e farci bu!, ci daremo un gran da fare per fingere che non sia accaduto affatto».

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