Finalmente sono arrivati. Oggi. Ottant'anni, roba grossa, grande e bella come la vita di Carlo Mazzone, allenatore di calcio che grazie al pallone incominciò a nutrirsi di carne mentre le sorelle sue continuavano a mordere panini gonfi di sola mortadella, profumata ma sempre mortazza era.
Si deve arrivare a ottant'anni per ricordarsi di Carlo Mazzone. Che ad ottant'anni chiamiamo ancora Carletto, perché così ci piace, ci è piaciuto, è piaciuto pure a lui, sor Carlé, quasi un secolo di calcio, vero, normale, umanissimo. Un professore universitario con l'umiltà di un maestro elementare, Ascoli, il suo regno, il mare, davanti ai bagni Nadia di San Benedetto del Tronto, il suo oceano, di pensieri e di esistenza. Niente panfili e jet sciccosi, niente procuratori avidi e prepotenti, Mazzone si è fatto da solo e da solo ha fatto una, dieci, cento squadre, dal nulla costruite e nel benessere lasciate. Aveva detto il giusto Fulvio Bernardini, durante una lezione agli allenatori scolari di Coverciano: «Avete speso tempo e soldi per andare in Olanda, bastava andare a vedere l'Ascoli di Mazzone». Giocava, quell'Ascoli, un calcio facile, semplice e per questo, quasi unico. Costantino Rozzi, il presidente, si infilava sempre un paio di calcini rossi cardinalizi e teneva strette le mani sulle caviglie durante le azioni della squadra sua. Arrivava il gol, arrivava la vittoria ma se era anche la sconfitta, offriva alla stampa champagne e olive ascolane, il fritto e i lieviti francesi addolcivano le cronache e i commenti degli inviati.
Erano giorni belli ma lo sono ancora per i mazzoniani, una specie di corrente risorgimentale, la filosofia del football mai spacciato ma studiato e rispettato. Pochi sapevamo, per ignoranza e superficialità, di quanto e di come Mazzone si aggiornasse quotidianamente, casa e campo, campo e casa, scrivendo e ripassando, insegnando e migliorando.
Mazzone ha attraversato l'Italia, amato da tutti gli italiani, fossero juventini, milanisti o napoletani, non dico romani e romanisti perché quella era la terra di origine, quella anche la casa che lo accolse per poi rispedirlo fuori dall'uscio. Ha tenuto a scuola Totti e Baggio, per dire. Ho detto un docente universitario con la saggezza di un maestro elementare, la faccia da vecchio quando era un giovinotto e il volto di un austero signore, quando gli anni si sono fatti tanti, personaggio da commedia e da film, vanziniano e petroliniano, teatrale nel fare, mai nel dire, semmai verace, genuino, sanguigno e immediato. «La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica il pane dei poveri», parole sue che sono bestemmia nella casa dei tikitakisti e dei docenti del quattrotretre. Ma la cosa più difficile è essere normale.
La candeline sulla torta sono poche rispetto ai meriti e all'onesta dell'uomo e del professionista e a certe sue uscite che oggi, con la comunicazione che riporta anche il sospiro di un passerotto, sarebbero da prima serata. Segnalo quella che per me racchiude il mazzonismo, la semplicità del pensiero e dell'azione.
La conversazione si svolse con Amedeo Carboni, difensore romanista, durante una partita di campionato: «Amedé quante partite hai fatto in serie A?». «350 mister», replicò il ragazzo. «E quanti gol hai segnato?». «4 mister». «E allora perché cazzo te ne stai a 'nnà in attacco!». Cento di questi anni, Carletto.
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