Ciao, ciao America Il padrone sono io

Bolt non è riuscito a superare se stesso. Era più importante arrivare davanti a Blake, l’amico-rivale che l’aveva sfidato

Ciao, ciao America Il padrone sono io

Ciao Blake, ciao America, ciao mondo: io vado a pren­dermi quello che è mio. Usain Bolt è oro.Ancora.Di più.Pe­chino come Londra: stesso padro­ne. La faccia dei Giochi che fa quel­lo per cui è venuto: vincere. Primo senza distacco, ma facendo lo stes­so il vuoto: l’era Bolt è il film dell’at­leta più incredibile di sempre. Non alla Phelps che vince tutto, ma alla Usain che vince quello che serve per entrare nella leggenda. Non serve il record, non ora. Senza scendere sotto la soglia dell’uma­no, Bolt si prende la gloria. Vince l’istinto,non la forza.Perché il fra­tellino Blake era andato più veloce di lui tutto l’anno. E no, caro Yohan. Ripassa la prossima volta: questa è la mia stagione, la mia ge­nerazione, la mia epoca.L’età del­l’oro giamaicano che fa morire d’ammirazione il resto del mon­do. Si parla, si dice, si racconta: esi­sterà mai uno più forte di Bolt? I cento metri segnano leggende che non muoiono neanche quando i loro protagonisti smettono. Usain ha 26 anni e nessuno sa se ha rag­giunto ancora il top. Neanche lui. Torna la leggenda dell’atleta che vince la gara più importante diver­tendosi. Senza pressione, senza tensione. Ride prima di entrare in pista, fa gli stessi gesti spacconi che l’hanno consegnato alla popo­larità assoluta. Bolt è un gradasso che fa simpatia perché si trascina la consapevolezza sua e di tutti gli altri di trovarsi di fronte a un feno­meno unico nella storia, nella pri­ma prova di uomo bionico e nel­l’ultimo esempio di macchina a sembianze umane. Chi è che può pensare oggi di non ammirarlo? Chi è che si permette di dire che non è il migliore? Lui e il suo modo di fare da bulletto impertinente piacciono. Vedrete quelle braccia tese ad arco come simbolo di un’era,vedremo quei balli all’arri­vo come icona di uno sport che ave­va perduto personaggi e ha trova­to un interprete. Bolt è un’iperbo­le, una figura retorica, un simbolo. Londra voleva lui. Solo lui. Que­sta vittoria, più di ogni altra. Per­ché i cento sono tutto, sono oltre. Racchiudono l’atletica e quindi l’Olimpiade intera. La vittoria di Bolt è la vittoria dei Giochi. Phelps s’è preso l’eternità, Usain si pren­de la contemporaneità: come se lo sport intero ruotasse attorno a lui, quello che qui non riesce a fare due metri senza che qualcuno lo fermi. Mi fai un autografo? Posso farti una foto? Gli piace. Gode. È la sua vita, è il suo mondo. Con i passi dell’uomo più veloce della storia lui ha avuto quello che voleva. Usa­in corre per correre, corre per vin­cere, corre per ridere, corre per fir­mare un altro contratto miliona­rio. Non è vero che non insegue i soldi: va a caccia di una tappa do­po l’altra per racimolarne di più. Quello che faceva Bubka nel salto con l’asta:tutti sapevano che pote­va saltare più in alto, lui superava l’asticella un centimetro a mee­ting. Perché ogni salto era un re­cord e ogni record un assegno. Bolt s’accontenta delle vittorie.Di­ce che potrà superare anche se stesso. Quando? Non importa. Non sa neanche se sia vero.

Ma chef a ora? Conta quest’oro, que­sto lampo che arriva davanti a tut­ti. E soprattutto davanti a Blake, l’amico rivale che l’aveva sfidato: «Ti batto». Aspetta, non è ancora il tuo turno. Questa è ancora una Bol­tiade.

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