Conte, lo special eleven ferito che sa fare squadra

Il ct non vuole eurogite, vuole i suoi alla guerra. Si fa male al gol e poi urla: "23 bravi ragazzi..."

Conte, lo special eleven ferito che sa fare squadra

Tredici giugno, Sant’Antonio. Martire a Lione. Sanguinante, in una inedita raffigurazione, non certo sacra ma eroica, un po’ folle, secondo usi e costumi di questo nostro santo allenatore destinato ad abbandonare la patria e trasferirsi all’estero. Quando il suo Giaccherinho ha messo dentro il pallone, con lo stile e l’eleganza di un brasilero e non di un aretino di Talla, Conte è saltato come il tappo di spumante per la festa dell’onomastico, il suo, e si è messo a urlare, a saltare come nella pizzica, il ballo salentino, a correre però andando a sbattere contro la crapa pelata di Zaza, lo scontro è stato feroce, nel casino generale di baci e abbracci, Conte ha sentito un dolore improvviso e profondo, il peggior colpo di testa di Zaza che già è una capa matta ma non in questo senso e «pur di far vincere l’Italia mi sacrifico io fisicamente» dirà alla fine. Il naso a pezzi, medicato, suturato, ferita aperta, come il cuore di questa squadra, pulsante, caldo.

Calda la testa, caldo il piede di Leonardo Bonucci, il suo bengala vincente, caldo il respiro di quest’Italia che spesso disarma, delude, respinge i sogni e poi si rialza, si desta, come cantiamo con Mameli. Conte è l’uomo che spiega questa anima doppia, parla con la stampa e sembra rantolare, stanco, fiacco, intorpidito; poi si addobba da allenatore, va in panchina, anzi non si siede mai, corre, strepita, incita, ringhia, vorrebbe mordere e prendere a schiaffi i suoi. Sa che soltanto sudando e soffrendo, come gli è toccato per tutta la carriera di calciatore, soltanto così vivendo e facendo, si possono raccogliere risparmi e toccare il cielo. Qualche giornalista cialtrone ha sollevato il dubbio ipocrita che la squadra sarebbe stata demotivata dalla fuga del tecnico salentino, poco riconoscente nei confronti della federazione che gli ha garantito denari che sembravano impossibili e che Ventura non vedrà e incasserà mai. I cialtroni non conoscono Conte, lo osservano in tivvù, ne ascoltano i rantoli in conferenze e interviste varie, si limitano alla superficie, scrivono righe ignoranti.

Conte è un animale da e di campo, la sua casa è lo spogliatoio, il lavoro è maniacale: «Non so mai a che ora, se di mattina o di pomeriggio fissa gli allenamenti, cambia la sera, ricambia la mattina e io così debbo sempre rinunciare all’appuntamento con il dentista». Ricordo queste parole di Andrea Pirlo, nell’epoca juventina, per spiegare che razza di idee frullino nella testa di sant’Antonio che è una cosa seria, non certo giullaresca come quella del cosiddetto Fant’Antonio, quell’altro tipo di pugliese e di professionista, perso a largo del mar Ligure. Cassano non è più, come Balotelli, giocattoli di un’Italia che fu e che, per fortuna, è stata messa da parte, cancellata, dimenticata da tutti. La nuova Italia è questa, figlia del suo allenatore, di testa e di pancia. Antonio Conte garantisce il massimo e questo richiede dai suoi, «sono 23 bravi ragazzi» urla felice al 90’, «c’è alchimia ma non abbiamo ancora fatto niente... però la squadra c’è» ripete.

Perché lui non fa lo special one, lui vuole che siano special eleven, un gruppo sì ma soprattutto una squadra perché una cosa è la scolaresca convocata per la gita, un’altra la truppa che deve andare in guerra. E come nelle migliori favole l’ultimo bacio lo porta un altro principe del Salento, Graziano Pellé. Andiamo a dormire senza sognare perché siamo veri. Verissimi.

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