Non poteva che giocare in attacco. Ora con la maglia rosso nera numero 8. Ma i «gol» di Nadia Nadim sono tanti e passano su vari campi. Non tutti di calcio. Nasce nel 1988 a Herat nell'Afghanistan degli integralisti. Nel 2000, il padre Rabani, un generale dell'esercito afgano, viene sequestrato e assassinato nel deserto dai talebani. Nadia ha 12 anni. Con la madre e le sue quattro sorelle si danno alla fuga. Il passaporto falso per attraversare il Pakistan, poi un passaggio in Italia, ma l'obiettivo è arrivare in Inghilterra. Ed è lì che credono di arrivare nascoste dentro a un camion. Invece nel suo destino c'è la Danimarca.
Qui il suo primo campo è quello per i profughi. «L'unica cosa a cui pensavo era rimanere in vita, sopravvivere fino al giorno successivo», racconta in un'intervista di qualche anno fa a CNN Sport. Ed è lì che vede i bambini che giocano a calcio. La palla, la prima era stato un regalo di suo padre. Ci si butta anche lei. È brava Nadia, sempre più brava. Lascia il campo profughi, ma non quello di calcio. A 18 anni diventa cittadina danese, il mondo del pallone le ha già messo gli occhi addosso. E lei ha già messo gli occhi su qualcos'altro. A 19 anni si iscrive anche a medicina. Gioca e studia. Dal Fortuna Hjørring vola nel Portland Thorns negli Stati Uniti, poi nel Manchester City, Paris Saint Germain e Racing Louisville. Ma quando la nazionale danese scende in campo lei vola a casa.
«Sono una persona che ha sempre dei sogni», racconta. Ed eccoli qua.
Due anni fa si è laureata in chirurgia, sa 9 lingue, è diventata ambasciatrice Unesco per l'istruzione di bambine e donne. «C'è questo detto volere è potere» racconta oggi con la maglia del Milan. Ecco «questo è il motto della mia vita».
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